La rivalità Usa-Cina allunga la guerra
La guerra in Ucraina non è questione a sé. Si inserisce strategicamente nello scontro Stati Uniti-Cina per il primato mondiale
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La guerra in Ucraina non è questione a sé. Si inserisce strategicamente nello scontro Stati Uniti-Cina per il primato mondiale
Di Lucio Caracciolo, La Stampa
Il rumoroso rientro della Cina sulla scena internazionale, dopo tre tristi anni di letargo da Covid e di arroganti scomuniche inflitte al resto del mondo, potrebbe inavvertitamente prolungare e inasprire il conflitto in Ucraina. L’esibizione di Xi Jinping fra stucchi e ori del Cremlino, in relativa sintonia con Putin, ha infatti due facce fra loro incoerenti. Xi si ostenta onesto sensale nella guerra ucraina sulla base del suo “piano di pace”, apprezzato solo in parte da Putin, che in realtà è il manifesto della geopolitica globale cinese. Manifesto che comunque induce Zelensky a proporre al leader cinese un incontro virtuale, previsto nei prossimi giorni. Allo stesso tempo, Xi stringe il rapporto speciale con la Russia, ridotta a junior partner nel cosiddetto “partenariato strategico globale di coordinamento dei due Paesi per la nuova èra” – leggi: Cina e Russia alla testa del vagheggiato fronte anti-occidentale.
Nasce così una peculiare figura da ombre cinesi, quella del mediatore di parte. Nulla di straordinario nell’arte politica, incurante del principio di non-contraddizione. È però evidente che gli Stati Uniti mai consentiranno alla Cina di intestarsi la pace in Ucraina. Comunicazione subito girata da Biden a Zelensky. La guerra deve finire declassando la Cina, più ancora che la Russia. O non deve finire.
Il presidente ucraino ne ha preso nota, ma non per questo rinuncia a esplorare la pista cinese, considerando anche i notevoli interessi e investimenti sinici nel suo Paese. Certo il “piano di pace” di Xi non è in grado di avviare la sedazione del conflitto che per lui non sarebbe mai dovuto cominciare. Lo stesso vale per gli altri tentativi di stabilire un cessate-il-fuoco, cominciati subito dopo l’invasione russa. Colloqui informali e segreti a medio livello fra russi e ucraini sono finora inutilmente in corso su binari diversi e paralleli, per esempio a Ginevra con la facilitazione svizzera. Anche fra Mosca e Washington i canali restano aperti, non solo per evitare lo scontro militare diretto causa incidente.
In teoria, la tregua potrebbe essere facilitata dalla duplice pressione dell’America sull’Ucraina e della Cina sulla Russia. Gli americani da mesi segnalano non troppo riservatamente a Kiev che prima o poi si dovrà arrivare al congelamento del conflitto in stile coreano: impregiudicati i confini di Stato perché nessuno può cedere qualcosa all’altro, si traccerà una linea divisoria presidiata da contingenti internazionali e garantita dalle maggiori potenze. Tutto ciò dopo un’offensiva ucraina che consentisse di recuperare parte dei territori annessi da Putin, altrimenti Zelensky non potrebbe nemmeno accennare il negoziato. Resta da dimostrare che la Russia sia disposta a questa soluzione. Putin spera di poter spingersi ancora più avanti nella conquista del Donbass e prepara una nuova mobilitazione. Comunque il concetto di vittoria è mobile. Vale per entrambi i contendenti.
Ma la guerra in Ucraina non è questione a sé. È ricompresa al grado strategico nello scontro Stati Uniti-Cina per il primato mondiale. Washington e Pechino differiscono su quasi tutto, non nella consapevolezza della posta in gioco. E nella priorità del teatro indo-pacifico rispetto all’ucraino. Tanto che al Pentagono non vedrebbero poi male l’invio di armi cinesi alla Russia, perché sarebbero sottratte al quadrante di Taiwan e dintorni. Quelle forniture che invece gli americani offrono agli ucraini, a scapito del flusso di armi agli amici e alleati asiatici impegnati nel contenimento delle ambizioni oceaniche di Pechino. Ciò spiega le recenti pressioni dei militari americani sui colleghi di Kiev perché chiudano la partita entro l’estate. La priorità è la Cina, non la Russia.
Per Pechino, scottata dal fallimento del colpo di Stato a Kiev promesso da Putin come fosse passeggiata di salute e preoccupata dall’espansione dell’Alleanza Atlantica verso l’Indo-Pacifico, è il momento della revisione tattica. All’insegna della diplomazia e della asserita volontà di pace. Di cui il leggero abbassamento di tono su Taiwan, dopo anni di martellamento militaresco, è l’espressione più eloquente. Xi vorrebbe quindi che Putin chiudesse rapidamente l’avventura ucraina. Soprattutto, non può permettersi la sconfitta e magari la disintegrazione della Russia, su cui deve poter contare nell’allestimento del teatro anti-americano di sapore terzomondista.
In questa guerra di attrito decisivo è stabilire a chi giovi il prolungarsi del conflitto. Chi ha il tempo dalla sua? I russi, forti di una superiorità netta in uomini, risorse e armamenti, sono convinti di poter resistere un minuto più degli ucraini. I quali invece sperano di farcela grazie al sostegno americano e di alcuni Paesi europei, Polonia in testa, da cui dipendono. Micidiale tiro alla fune, che lascerà comunque il “vincitore” più debole e instabile di quanto fosse il 22 febbraio. Ma questa è la (il)logica di guerra, cui noi europei ci eravamo illusi di esserci per sempre immunizzati.
Oggi il fronte è quasi in stallo. Non durerà molto a lungo. Né Putin né Zelensky pensano di poter spacciare per vittoria ciò che hanno preso o perso finora. Nelle variabili future bisognerà considerare che in assenza di cessate-il-fuoco il conflitto potrebbe degenerare e connettersi ancora più palesemente al fronte indo-pacifico, a rischio d’incendio. L’inerzia della guerra non spinge alla pace.
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