Sara Ibrahim Swissinfo.ch
Era il 1948 quando la partecipazione equa al “progresso scientifico e ai suoi benefici” fu sancita nell’ambito dei diritti sociali e culturali della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (articolo 27) per evitare di ripetere gli errori commessi nel corso della Seconda guerra mondiale.
Durante quel capitolo buio della storia, la scienza era stata strumentalizzata a fini politici, economici e bellici, causando morte e distruzione. Questo evento segnò la nascita del diritto umano alla scienza, che dovrebbe essere garantito da tutti gli Stati, proprio come il diritto alla libertà di espressione e a un giusto processo.
Tuttavia, il diritto alla scienza è ben lungi dall’essere universalmente riconosciuto: milioni di persone in tutto il mondo non hanno accesso a vaccini e farmaci efficaci e sicuri, come la pandemia di coronavirus in particolare ha dimostrato. Tale situazione perdura nonostante i vaccini abbiano raggiunto il mercato in tempi record grazie agli investimenti pubblici e alla condivisione delle conoscenze scientifiche.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e l’alleanza pubblico-privata Gavi, che hanno dichiarato i vaccini anti Covid-19 un bene pubblico globale, non sono riusciti a distribuirli equamente in tutto il mondo attraverso il programma Covax, lanciato proprio a questo scopo. Il risultato è che solo il 15% delle persone che vivono nei Paesi a basso reddito sono vaccinate contro il Covid-19 con almeno una dose, contro il 72% nei Paesi ad alto reddito.
Questa disparità di accesso al progresso scientifico non è solo ingiusta, ma pone anche un serio problema di salute pubblica. “La scienza come diritto umano è un bene pubblico sia individuale che collettivo e perciò dovrebbe essere goduta da tutti e tutte”, afferma Andrea Boggio, professore di studi giuridici alla Bryant University, negli Stati Uniti. Boggio, che in ottobre è intervenuto a una tavola rotonda sul diritto alla scienza nel quadro del Summit di anticipazione della scienza e diplomazia di Ginevra (GESDA), aggiunge che è necessario creare le condizioni affinché tutte le persone ne possano trarre vantaggio, per esempio condividendo i risultati scientifici.
Ma è proprio qui che si trova l’ostacolo più grande. Dopo più di due anni dall’inizio della pandemia, è emerso chiaramente che i Governi dei Paesi ricchi come la Svizzera non hanno intenzione di rinunciare al loro accesso privilegiato a strumenti medici che possono salvare milioni di vite e salvaguardare la salute pubblica globale.
Privilegi gettati nella spazzatura
La Svizzera ha svolto un ruolo importante nel promuovere l’accesso equo ai vaccini Covid-19. E non solo per via del fatto che l’OMS e Gavi hanno sede a Ginevra: nel maggio 2020, l’azienda chimica di Basilea Lonza ha firmato un contratto decennale con Moderna per fabbricare e distribuire il suo vaccino mRNA al di fuori degli Stati Uniti.
Tuttavia, a livello nazionale la campagna vaccinale non ha prodotto i successi attesi: l’adesione da parte della popolazione è cresciuta lentamente, a causa dello scetticismo nei confronti dei vaccini e di una certa sfiducia nelle misure varate dal Governo, tanto che la Svizzera ha il tasso più basso di persone vaccinate contro il Covid-19 in Europa occidentale.
Ma soprattutto la Svizzera non è stata in grado di coordinare gli sforzi per donare le sue dosi inutilizzate ai Paesi bisognosi: il Governo federale ha annunciato a fine ottobre che butterà 14 milioni di vaccini scaduti entro febbraio 2023. Boggio definisce questa situazione “vergognosa”.
La proprietà intellettuale minaccia la salute pubblica
Uno dei nodi più difficili da sbrogliare per rendere la scienza un diritto universale riguarda i brevetti sulle scoperte scientifiche, che continuano a impedire ai Paesi più poveri di produrre autonomamente e a prezzi inferiori i vaccini e le altre cure di cui hanno bisogno.
“Il modo in cui abbiamo gestito la proprietà intellettuale durante la pandemia di Covid-19 è completamente sbagliato”, afferma Gabriela Ramos, vice-direttrice generale per le scienze umane e sociali dell’UNESCO. Le disposizioni sulla proprietà intellettuale hanno permesso ad aziende come Pfizer/BioNTech e Moderna di mantenere il controllo sulla produzione e sulla distribuzione dei vaccini contro il coronavirus.
E ciò nonostante entrambe le aziende abbiano ricevuto ingenti investimenti pubblici per sviluppare le loro tecnologie – più di 430 milioni di dollari dalla Germania e 110 dall’Unione Europea per BioNTech, e circa 2,5 miliardi di dollari dagli Stati Uniti per Moderna. “Gli investimenti fatti con i soldi dei e delle contribuenti vengono privatizzati e fruttano miliardi di dollari a queste aziende, che poi impediscono un’equa distribuzione dei vaccini invocando i diritti di proprietà intellettuale. Questo è ingiusto”, sostiene Ramos.
Pfizer/BioNtech e Moderna si sono difese sostenendo che lo sviluppo dei loro vaccini è stato possibile anche grazie a investitori privati che si sono assunti dei rischi e che la rinuncia ai brevetti mette in pericolo questi investimenti in futuro. Entrambe le aziende hanno registrato ricavi miliardari nel 2021: 19,5 miliardi di dollari per BioNTech (rispetto ai 495 milioni di dollari del 2020) e 18,5 miliardi di dollari per Moderna (rispetto agli 803 milioni di dollari del 2020).
Secondo i ricercatori e le ricercatrici dell’Università di Oxford, la comunità mondiale dovrebbe unirsi per sostenere una deroga alla proprietà intellettuale per le tecnologie Covid-19. Ciò aiuterebbe a superare l’attuale modello di distribuzione globale, basato sulla competizione finanziaria per accaparrarsi scorte limitate di vaccino, che penalizza i Paesi a basso reddito.
Nell’ottobre 2020, India e Sudafrica, sostenuti da un centinaio di Paesi a basso reddito membri dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), avevano chiesto la sospensione temporanea dei brevetti su vaccini, farmaci e altri strumenti diagnostici relativi al Covid-19 per tutta la durata della pandemia e fino al raggiungimento dell’immunità di gregge globale.
Questi Paesi hanno combattuto per più di un anno e mezzo, ma l’accordo raggiunto a giugno alla 12a Conferenza ministeriale dell’OMC a Ginevra li ha lasciati con l’amaro in bocca: la fervente opposizione soprattutto di Unione Europea, Stati Uniti, Svizzera e Regno Unito ha reso impossibile la sospensione dei brevetti.
L’accordo concede invece a certi Paesi l’uso delle licenze sui vaccini a un costo inferiore e solo per cinque anni – escludendo le licenze su altri farmaci o strumenti di lotta al coronavirus – senza grandi differenze rispetto alle esenzioni già garantite in casi di emergenza dagli accordi esistenti.
Secondo quanto riportato da organizzazioni non profit come Oxfam ed Emergency, la Svizzera si sarebbe impegnata particolarmente per peggiorare il testo. La delegazione svizzera, da parte sua, ha salutato l’accordo come “un successo”.
“Penso che questo sia il peggior esempio di come dovremmo gestire il diritto alla scienza”, ha detto Ramos a proposito dei negoziati sui brevetti. Secondo la funzionaria dell’UNESCO, il fatto che i Governi siano pronti ad anteporre i profitti delle case farmaceutiche alla salute delle persone spiega anche perché la sfiducia nella scienza stia crescendo.
La Svizzera, un modello mancato
La Svizzera non sembra quindi essere un modello in fatto di diritto alla scienza, nonostante sia sede di importanti istituzioni come le Nazioni Unite (ONU) e di eventi internazionali come GESDA. E non solo per la sua strenua difesa della proprietà intellettuale, ma anche perché è difficile per le cittadine e i cittadini svizzeri rivendicare tale diritto davanti agli organismi internazionali.
“La protezione dei diritti sociali e culturali in Svizzera è notoriamente insufficiente”, afferma Samantha Besson, docente esperta di diritti umani all’Università di Friburgo (Svizzera). La Confederazione svizzera non ha mai ratificato il Protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, malgrado i ripetuti richiami degli organismi delle Nazioni Unite per i diritti umani.
Besson ritiene che le pressioni da parte della politica e dell'”economia della ricerca” (cioè l’uso della ricerca per ottenere un beneficio economico commerciabile) sia troppo forte perché la Svizzera decida di rafforzare giuridicamente il diritto alla scienza in tempi brevi.
Certo, la società civile elvetica ha almeno lo strumento della democrazia diretta dalla sua parte per far sentire la propria voce. Ma secondo Besson questo non è sufficiente a garantire il riconoscimento dell’articolo 27 della Dichiarazione universale dei diritti umani.