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Di Davide Arcidiacono, Dissipatio.it

Si avverte il peso della storia a leggere i tweet, alle volte anche scellerati, che Elon Musk pubblica a cadenza quotidiana sul suo profilo. L’idea che l’uomo più ricco del mondo e fresco proprietario della piattaforma medesima possa così facilmente dettare la sua linea “politica” a una così vasta platea è qualcosa di storico indubbiamente. Neanche Donald Trump, che pur su Twitter ha costruito il suo personaggio, poteva vantare un seguito così fedele, derivato in larga parte dalla differenza di status sociale fra i due. L’ex Presidente visto come uno spregiudicato; Musk, invece, come ambiguo genio, aldilà del bene o del male. Ecco avvertirsi il peso della storia nel momento di presa di coscienza che le sue boutade digitali rappresentano un esperimento mai visto di ininterrotto sversamento pubblico dei pensieri di una mente brillante. O almeno così da molti è considerata.

Non si è però neanche così ingenui da credere che Musk non abbia obiettivi di lungo termine. O che certi tweet rappresentino solo il gioco di chi ha altro da fare nella vita. Spendere quarantaquattro miliardi di dollari per diventare il padrone di una sala giochi in perdita da anni – e senza un modello di business capace d’invertire la tendenza – non è sensato. A meno che non si abbia un’idea già definita di come sfruttarla. Le turbolenti settimane che hanno preceduto il passaggio di proprietà di Twitter hanno visto Elon Musk impegnato a spiegare in seguitissimi convegni quali fossero le motivazioni:

“Difendere la libertà di parola”

Un obiettivo perseguibile tramite la rimozione delle pratiche censorie ampiamente praticate dalle aziende della Silicon Valley, il luogo di nascita di quella moderna Cancel Culture, espressione diventata molto popolare negli ultimi anni. Il punto della libertà di parola è ciò su cui preme molto Musk, da una parte strizzando l’occhio ai Repubblicani, dall’altra conscio che se c’è una fazione ideologica che oggi negli Stati Uniti (e quindi nel mondo) manca di una guida è quella orfana del Trumpismo dunque dell’unico leader di peso capace di unire idee di destra e di sinistra in un unico blob informe. Non è un caso che fra i primi atti da nuovo capo di Twitter, Elon Musk abbia voluto un sondaggio proprio sulla riammissione dell’ex Presidente, i cui esiti sono stati molto più in bilico di quanto ci si aspettasse. E non è neanche un caso che Trump abbia recepito la vittoria senza incassarla. È consapevole che nel pollaio c’è posto per un solo gallo e che dunque tornare su Twitter vorrebbe dire tornare su una piattaforma dove non sarebbe più il padrone della dialettica.

Perché di questo si tratta: essere in grado, solamente con un tweet, di dettare le notizie d’apertura dei giornali, cartacei e non, di tutto il mondo. C’è stato un tempo in cui Donald Trump era in grado di farlo, oggi lo scettro è in altre mani. I nemici sono diversi, anche se ideologicamente affini. Niente più Nancy Pelosi, che nel cuore dei trumpiani rappresentava l’anima bacchettona e ipocrita del Partito Democratico: è il tempo della guerra per il dominio della Silicon Valley. E dunque la guerra per il dominio del discorso digitale, che oggi vuol dire il discorso e basta. Dopo la diatriba tutta interna con la vecchia dirigenza di Twitter – che sapeva tanto della canzonatura della squadra che vince al novantesimo – più volte accusata di essere troppo schierata a sinistra, si guarda fuori dal proprio orto puntando al nemico più forte per far capire agli altri di che pasta si è fatti. Così ecco spuntare l’ultima guerra, quella contro l’intoccabile Apple. Prendersela con i primi della classe richiede uno sforzo di volontà non indifferente, ma anche un’imbeccata dai medesimi. L’attacco di Musk nasce da un tweet:

«Apple ha quasi smesso di pubblicizzarsi su Twitter. Per caso odiano l’idea di una libertà di parola in America?».

Secondo fonti interne americane Apple avrebbe investito quarantotto milioni di dollari su Twitter in contenuti sponsorizzati, solamente nei primi tre mesi del 2022. Poi, dopo l’acquisizione di Musk, la progressiva chiusura dei rubinetti. Una presa di posizione netta a cui il padrone di Twitter è stato rapido nel rispondere. Dimostrando anche cosa vuol dire essere padrone della più importante piattaforma digitale di discussione. Dopo quel tweet ne sono seguiti altri che puntavano a sviscerare i guadagni segreti di Apple tramite il suo App Store, e vari re-tweet da account di seconda fascia. Le stesse pratiche di gogna pubblica sfruttate a suo tempo da Trump. Nulla di diverso. Fa specie che la destinataria in questo caso sia l’azienda più redditizia del mondo. Una sfida fra titani che quasi certamente morirà in breve tempo.

Rimarrà il nuovo status quo, quello che vede l’uomo più ricco del mondo anche padrone del più importante canale di comunicazione digitale esistente. Con tutto ciò che ne consegue, gran parte ancora ignoto. Musk parla molto fumosamente di una «battaglia per il futuro della civilizzazione» da cui dipenderanno i capisaldi della democrazia americana. Nei fatti Twitter non è mai stato sano come adesso e i licenziamenti di cui spesso si parla sono dettati più da cicli di mercato – che hanno raggiunto picchi inediti durante il 2020, quando tutti erano chiusi in casa – che non da una crisi dell’azienda o della Silicon Valley stessa, come alcuni hanno suggerito. 

Elon Musk sta ancora cercando di capire come sfruttare un’arma potentissima, molto diversa da quella di cui disponeva prima di quella transazione da quarantaquattro miliardi. Per ora si limita a chiedere alla sua coscienza, cioè i suoi follower, cosa ne pensa di questioni di cui si è già formato un’opinione: «Vox populi vox dei». Musk sente il peso della storia, ogni ora passata senza twittare è potenzialmente un’ora persa, ogni mancato sondaggio un’occasione in meno d’indirizzare il futuro su nuovi binari. Ma come l’anello di Tolkien, anche Twitter potrebbe trasformarsi nella condanna di chi lo possiede. Perché un potere troppo grande rischia di essere difficile da gestire. Anche più difficile di sbarcare su Marte.






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