La società democratica è scesa in piazza per la pace
Una manifestazione nel segno della pluralità: di pensiero, di esperienze, di accenti politici e culturali
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Una manifestazione nel segno della pluralità: di pensiero, di esperienze, di accenti politici e culturali
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Una manifestazione nel segno della pluralità: di pensiero, di esperienze, di accenti politici e culturali
La sintesi umana migliore, per quanto involontaria, del corteo di ieri a Roma per la pace l’ha offerta dal palco il segretario della CGIL Maurizio Landini, nell’ultima frase del suo intervento conclusivo. “Non so come chiamarvi, se amici, compagni, fratelli, come volete voi! Ma noi dobbiamo continuare insieme, fino a quando non avremo raggiunto i nostri obiettivi”.
Amici, compagni, fratelli, che non sanno neanche bene come chiamarsi fra loro perché portatori di tradizioni politiche e culturali diverse e ciascuna, in questa fase storica, diversamente in crisi; ma con un enorme bisogno di continuare insieme. Di raggiungere obiettivi insieme. Di sprigionare energia e “intelligenza collettiva”, per usare ancora le parole di Landini. E se è vero, come è vero, che l’intelligenza collettiva ha bisogno per esprimersi di una iniezione attiva di intelligenze individuali, e di pluralità in grado di ritrovarsi nelle differenze, la piazza di ieri a Roma è stata un’occasione promettente e stimolante, perché da tempo non si vedeva una manifestazione così plurale, così capace di aggregare e accogliere posizioni, punti di vista e di osservazione, esperienze di vita e schieramenti politici diversi e spesso persino distanti fra loro, ma in grado di convergere su un’esigenza: che la guerra che sta devastando il popolo ucraino finisca al più presto.
“Amici, compagni, fratelli”, sono state le grandi anime del corteo romano: tantissima gente comune, tanto mondo del volontariato laico, tanto associazionismo cattolico, e tanto mondo sindacale e di sinistra. Il cosiddetto “popolo della pace” che in gran parte è lo stesso di sempre, lo stesso che animò la moltitudinaria manifestazione del 15 febbraio 2003 contro le guerre in Afghanistan e Iraq, e che nel 2022 si è trovato a fare i conti con una guerra diversa, spiazzante rispetto alle certezze schematiche con cui la sinistra in particolare è abituata a dividere il mondo. L’invasione imperialista di un Paese sovrano non l’hanno condotta gli Stati Uniti, stavolta, bensì la Russia, quella parte di mondo che un settore – ultraminoritario, anche nella sua presenza in piazza ieri – continua a identificare come terra promessa della lotta contro il capitale, sebbene si tratti di una delle potenze dove il capitalismo si esprime nella sua incarnazione più feroce: quella neomercantilista come sostiene il sociologo russo Alexander Bikbov; e la richiesta di pace per il popolo invaso si scontra con la combattività di questo stesso popolo, tutt’altro che inerme, tutt’altro che indifeso. Un popolo ben armato dagli Stati occidentali, capace di contrapporsi all’avanzata russa e di sventare quella che nei piani del regime di Putin avrebbe dovuto essere un’annessione da realizzare in pochi giorni, e che invece ancora non si è realizzata e possibilmente, auspicabilmente, non si realizzerà mai. Un popolo che, colpito al cuore nella possibilità di esistere con la propria identità, dignità e sovranità, ha reagito inevitabilmente rafforzando il proprio orgoglio identitario e mobilitando subito in suo soccorso metà dell’Europa, la metà orientale che ha conosciuto da vicino l’imperialismo grande-russo, mentre la metà occidentale si è ritrovata frastornata, spaccata, polarizzata fra una posizione nettamente “atlantista” partorita dalle classi dirigenti del Paese, come l’aveva definita l’ex Presidente del Consiglio Mario Draghi e come ha ribadito l’attuale Presidente Giorgia Meloni, e una posizione pacifista – quella espressa dalla piazza di ieri a Roma – che ha avuto bisogno di maggiore tempo per ricomporsi, per precisarsi.
C’è voluto tempo per riorganizzare le idee, comporre le proprie anime, capire come portare avanti un proprio discorso autonomo distinto sia da quello delle classi dirigenti del Paese evidentemente disponibili alla chiamata al riarmo generale, sia dalla propaganda filoputiniana che dipinge il regime russo come vittima delle circostanze o il popolo ucraino come preso fra i due fuochi di una guerra interimperialista; un racconto della realtà mistificato e mistificatorio, che tuttavia in Italia permane attivamente.
La notizia più importante che proviene dalla piazza del 5 novembre è proprio che questo rischio, all’interno del movimento pacifista, sembrerebbe scongiurato. Che l’idea della “guerra interimperialista” nella quale non schierarsi e rimanere neutri perché non si sta né con Putin né con la NATO è stata superata. L’organizzazione del corteo di ieri e la sua parte largamente maggioritaria, diversamente da quanto avvenne il 5 marzo scorso – quando i toni del pacifismo erano dimessi, quasi depressi e terribilmente autoriferiti tanto che il popolo ucraino non venne neanche mai nominato neanche dal palco – ha espresso una posizione trasparente rispetto alle responsabilità di questa guerra, al fatto che il popolo ucraino ne sia vittima e che abbia diritto alla sua autodifesa: un concetto ricordato dalla presidente dell’ARCI Francesca Chiavacci, che ha richiamato l’articolo 51 della Carta Costituzionale dell’ONU. Chiarita nelle sue premesse, la questione del continuare a inviare armi sì o no non ha perciò toccato il suolo di piazza San Giovanni, che invece è andato oltre, testimoniando una richiesta di cessate il fuoco e di apertura dei negoziati internazionali nella direzione del disarmo generalizzato e particolarmente del disarmo nucleare. Posizioni espresse con parole molto simili dall’area cattolica, attraverso il messaggio del Presidente della Cei Matteo Zuppi, sia dall’area laica, tramite le parole del Segretario della CGIL: entrambi hanno sollecitato che l’Italia ratifichi il trattato ONU contro le armi nucleari. Sono le posizioni che corrispondono alla cultura storica del movimento non violento italiano, un’anima importante della storia del pacifismo di questo Paese, ieri ben riconoscibile negli intenti e nel metodo.
Certo rimane aperta la divisione fra chi ritiene che il sostegno all’Ucraina si debba concretizzare anche con l’invio di armi, e chi ritiene che non sia necessario se non addirittura che sia dannoso. Così come, sull’urgenza del cessate il fuoco e sulla fine della guerra, continua a esistere una pluralità di posizioni che non troverà necessariamente, per ora, una sintesi. L’appello pubblicato su MicroMega “Pace subito, Solidarietà con l’Ucraina, Putin go home!” scritto da Paolo Flores D’Arcais e firmato da decine di personalità (dalle più conosciute come Erri De Luca, Lella Costa, Eva Cantarella, fino a tanta gente comune, insegnanti, attivisti) ha posto il tema nei giorni scorsi: il cessate il fuoco non è sufficiente, è necessario chiedere il ritiro dell’esercito invasore, quello di Putin, dai territori occupati. Cosa che la piattaforma di convocazione della manifestazione non faceva esplicitamente. Ma ciò che è degno di nota, in questo caso, non è tanto la discordanza di segno quanto la fattuale convergenza che nello stesso corteo, accenti diversi come quello posto dall’appello scritto da hanno potuto trovare con il resto della manifestazione. Dialogando, discutendo anche animatamente, ma sotto il segno della comune esigenza di pace e di solidarietà espressa al popolo ucraino. Il gruppo dei firmatari dell’appello ha espresso la sua diversità di pensiero in amicizia e concordanza, scegliendo di essere nella piazza romana di ieri. E amicizia e concordanza c’è stata fra tanti, ieri, ciascuno in piazza con le sue posizioni, non necessariamente coincidenti con quelle del vicino di striscione. Ciascuno con le sue battaglie, da far incontrare in uno spazio condiviso: la presenza combattiva, potente della voce delle giovani e dei giovani iraniani che ieri gridavano “Donna, vita, libertà” e legavano idealmente la loro lotta con la pace per il popolo ucraino e con i dissidenti russi è stata fra i punti più alti del corteo.
Fra le tante interviste che MicroMega ha realizzato nel corso della giornata di ieri, diverse hanno ribadito una posizione di solidarietà con il popolo ucraino, di esplicita condanna a Putin, ma anche di autocoinvolgimento nelle responsabilità politiche europee: dal conduttore Flavio Insinna, da sempre impegnato con la Comunità di Sant’Egidio, che ha detto “Putin deve tornare indietro e se non l’ha fatto finora è perché la grande politica gliel’ha permesso”, fino alla responsabile del Movimento Europeo di Azione non violenta, Marianella Sclavi, attiva da mesi sul suolo ucraino in operazioni di solidarietà e costruzione di relazioni fra gli attori democratici. Sia in piazza, sia nelle giornate precedenti, Sclavi ha posto con nettezza l’esigenza precisa di dare vita a una solidarietà attiva con il popolo ucraino che sia anche un ponte per il rafforzamento della democrazia, per scongiurare il pericolo più grave in una guerra: quello di diventare come il proprio nemico. “È un processo che è già in atto, e che è inevitabile da molti punti di vista”, ha dichiarato. “Il regime putiniano desidera annientare l’identità ucraina, lo vediamo da come ha stabilito, per esempio, il diritto russo a saccheggiare i musei ucraini. A questo adesso gli ucraini rispondono dicendo che a loro volta cancelleranno tutta l’arte russa dall’Ucraina. Ma lo vediamo nel rapporto con la lingua. Nei nostri momenti di incontro abbiamo dovuto difendere con forza la possibilità di usare la lingua russa, oltre che ucraina. E d’altro canto, cancellare l’uso del russo per una parte importante della popolazione sarebbe come cancellare una parte di sé facendo prevalere l’odio, la costruzione del nemico.”
Nel corteo romano c’erano tante persone ucraine, anche questa è stata una novità rispetto a marzo. Alcune si sono raccolte sotto lo striscione dell’appello di MicroMega hanno sfilato per un tratto di strada con la scritta in cirillico “НЕТ ВОЙНЕ! ПУТИН ДОМОЙ!”, “No alla guerra! Putin vai a casa!”. Non si sono trovate del tutto in sintonia con alcune cose che hanno sentito dire, non desiderano solo il cessate il fuoco perché, come mi ha spiegato una di loro, Svitlana Vitun, “se ci accontentiamo del cessate il fuoco, Putin lo userà come pausa di riorganizzazione per poi riprendere la guerra più violentemente di prima”. Svitlana Vitun vive in Italia, in Calabria da sedici anni, i suoi figli sono con le loro famiglie a Chernihiv, al nord dell’Ucraina. “La nostra città è stata fra le prime a essere invase da nord, quando le truppe russe sono entrate in Ucraina passando per la Bielorussia. I miei figli sono rimasti due mesi sotto l’occupazione russa, ma la resistenza di Chernihiv è stata quella che ha impedito a Putin di arrivare a Kiev. L’avanzata l’abbiamo fermata noi e la popolazione civile è stata importantissima per fornire aiuti al nostro esercito. La resistenza è di tutto il popolo”. Per Vitun “la pressione psicologica sulle persone in Ucraina, sui miei figli, è fortissima. È impossibile stare sotto le bombe o nell’occupazione per mesi e non soffrire problemi psichici. Ma il popolo ucraino è forte, ed è unito. Noi dobbiamo andare avanti a difenderci fino a quando tutto il territorio occupato, anche quello della Crimea, non sarà stato liberato”. Per lei i russi non sono un popolo nemico. “Ci sono tanti russi che non vogliono la guerra, ma io seguo i canali della propaganda russa, sono pieni di menzogne e bugie che confondono la testa delle persone. I russi non sono un popolo unito, quindi anche i dissidenti non riescono a protestare come popolo. Gli ucraini hanno questo di diverso: noi siamo un popolo unito”.
La voce dei dissidenti russi ieri è stata presente in più modi: attraverso le parole dell’attivista Alexander Belik che ha parlato a nome dei disertori della guerra del regime, e dell’associazione War Resisters International. Attraverso le parole dal palco di Andrea Riccardi presidente della Comunità di Sant’Egidio, che ha ricordato l’importanza dell’accoglienza verso chi scappa dalla Russia per non combattere la guerra. Attraverso la presenza dei settori della sinistra antistalinista, come il Comitato Stop alla Guerra in Ucraina che ha avuto il coraggio di manifestare per primo, il 7 ottobre scorso, davanti all’ambasciata russa contro la guerra. Germano Monti, uno degli animatori del comitato e storico militante di sinistra, da anni feroce oppositore del mondo rossobruno che si schierò fattualmente con Putin già ai tempi della rivoluzione siriana, quando l’autocrate russo fu essenziale perché il dittatore Bashar al Assad attuasse un genocidio contro il suo stesso popolo, ricorda a MicroMega che “questa manifestazione è la prima, dall’inizio dell’invasione, in cui le grandi forze di sinistra in questo Paese esprimono rispetto per la resistenza ucraina. Fino a qualche giorno fa intellettuali molto noti dicevano che la resistenza ucraina non esisteva, dimenticandosi che anche la resistenza italiana si collocava nell’ambito di uno scontro fra eserciti.” Il riferimento implicito di Monti è alle dichiarazioni recenti fatte da Michele Santoro in una trasmissione di La7. Santoro è uno di quelli che sembra ancora molto attaccato all’idea di una guerra interimperialistica in cui il vero nemico dell’umanità è la NATO. La manifestazione di ieri non lo ha assecondato. Come non ha assecondato nessuna delle beghe politiche di bassa lega che sui media oggi portano in primo piano ciò che in primo piano non è stato: la presenza del PD e le contestazioni – inutilmente volgari nei toni – a Enrico Letta, il ruolo di Giuseppe Conte, o la patetica contromanifestazione di Milano voluta da Carlo Calenda.
Tutti elementi di nessun valore in una piazza che non è stata quella dei partiti, ma è stata quella della società democratica. Della sua pluralità, delle sue divergenze e assonanze, delle sue esigenze di pace, del suo bisogno di speranza e di darsi forza ritrovandosi insieme. Se proseguirà il dibattito sui grandi nodi tuttora fortemente irrisolti della solidarietà con il popolo ucraino, della differenza fra ritiro e cessate il fuoco, della necessità di costruire un’Europa più protagonista politicamente nel mondo e nelle prospettive di pace, del disarmo non inteso come “non mandare armi a chi resiste” bensì come contrasto agli interessi dell’industria militare – oggi rappresentata persino dai Ministri – e allo strapotere del controllo militare sui territori, compreso sul territorio italiano; se su tutto questo le persone e le realtà associate saranno in grado di continuare a discutere senza squalificarsi reciprocamente, senza violenza o volgarità, ma ascoltandosi, potrà allora proseguire l’opera di quella intelligenza collettiva democratica, di sinistra, per la pace la solidarietà e la giustizia sociale di cui così tanto abbiamo tutti e tutte bisogno.
Di Mattia Feltri, La Stampa Qualche anno fa un amico mi suggerì di scrivere una biografia di Silvio Berlusconi. In cui sia dentro tutto, mi disse, una biografia in mille pagine,...
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