L’atlante occidentale e la cristianità dopo Ratzinger
Riflessioni laiche sull’eredità di Benedetto XVI: con il suo testamento morale bisognerà ancora fare i conti, da qualunque parte politica e culturale si provenga
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Riflessioni laiche sull’eredità di Benedetto XVI: con il suo testamento morale bisognerà ancora fare i conti, da qualunque parte politica e culturale si provenga
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Riflessioni laiche sull’eredità di Benedetto XVI: con il suo testamento morale bisognerà ancora fare i conti, da qualunque parte politica e culturale si provenga
Di Massimo Giannini, La Stampa
Due immagini potenti ci restano negli occhi, in questo primo scorcio di 2023. Francesco in Piazza San Pietro per l’ultimo saluto a Benedetto, i due Papi scelti dallo Spirito Santo per chiudere nell’abbacinante modernità della loro coesistenza il secolo che non vuole finire. E poi Putin nella Cattedrale dell’Annunciazione, la cappella privata degli Zar al Cremlino, che celebra in solitudine il Natale ortodosso [nell’immagine], nella penombra silenziosa dei murali di Teodosio e delle icone di Teofane il Greco, dove non può arrivare il boato delle bombe che in barba alla tregua continuano a devastare Kremina e Bakhmut. Nel frattempo, nella Cattedrale del Cristo Salvatore di Mosca il Patriarca Kirill condanna l’Ucraina che rende la Russia “un nemico”, mentre nella Cattedrale della Santa Dormizione di Kiev il Metropolita Epifanio risponde esaltando “le molte battaglie già vinte contro la Russia”.
Nell’epoca della mediatizzazione e materializzazione del sacro, le religioni si riprendono la scena. Scendono in campo, verrebbe da dire. La Chiesa Cattolica esce provata dalla fine dello “stato d’eccezione”, tra un “Pontefice dimesso” 600 anni dopo la rinuncia di Gregorio XII e un “Pontefice regnante” che ce lo ha avuto al fianco per quasi 10 anni. La Chiesa Ortodossa esce dilaniata dalla guerra, e combatte a sua volta su due fronti contrapposti, tra i sacerdoti ucraini cui è revocata la cittadinanza perché troppo vicini al nemico e i pope moscoviti che benedicono così i soldati russi che cadranno al fronte: “Vai coraggiosamente a compiere il tuo dovere militare, e ricorda che se muori per il tuo Paese sarai con Dio nel suo Regno. La tua vita in Terra in cambio della tua vita in Paradiso, dove arriverai felice e mondato da tutti i peccati”.
Una promessa che ricorda gli Imam islamici che promettevano il Regno di Allah pieno di vergini ai terroristi-kamikaze pronti a farsi esplodere nelle metro di Londra, nelle stazioni di Madrid, nei teatri di Parigi, nei mercati di Berlino. La Fede cieca e sorda, usata per servire una causa aberrante. Comunque si chiami, guerra o jihad.
Il Cattolicesimo non ci trascina nello stesso abisso. Nondimeno, di fronte alla umile cassa di legno povero in cui riposa Joseph Ratzinger e al Libro che la sovrasta, ci chiama a una riflessione, forse persino a una scelta. Fedeli, agnostici e persino atei, possiamo chiederci qual è il senso di una religione, oggi, e quale impatto ha sulle nostre vite, sui nostri destini individuali e collettivi. Io non ho risposte, ovviamente, da laico credo che ognuno debba trovare le sue. Ma penso che la morte di Benedetto XVI offra spunti preziosi, in un tempo in cui l’Occidente è resistente e resiliente nel grande Disordine Mondiale, ma è comunque attaccato e insidiato da più parti. E non solo nel suo primato economico, ma anche nel suo corpus etico e politico, nel suo modello sociale e culturale.
Non sono un uomo di fede né uno studioso di religioni. Al contrario dei teologi da talk show che pure ne discettano ogni giorno – non sono in condizione di esprimere giudizi dottrinali sulle differenze tra il papato di Ratzinger e quello di Bergoglio. Papa conservatore e filosofo il primo, Papa curato e “mondano” il secondo. Del Pastore Tedesco si arrivò a dire che era lui il vero fomentatore dello “scontro di civiltà”. Sul Parroco Sudamericano la copertina del Newsweek del 15 settembre 2015 si spinse a chiedere: “Ma è davvero cattolico?”. Vedo la distanza, di contenuto e di forma. Ma non la uso per misurare il valore dell’uno rispetto al disvalore dell’altro. Per me sono uomini, che hanno la loro storia e il loro vissuto. Che a dispetto del dogma conciliare del 1870 sono fallibili come chiunque altro su questa Terra. E infatti hanno fallito e continuano a fallire, tutti allo stesso modo, per esempio sulla pedofilia e gli abusi sessuali del clero di cui ha scritto Lucetta Scaraffia, sulla gestione di una Curia spesso dominata dalla lobby gay, sui veleni spurgati con Vatileaks di cui scrive Gianluigi Nuzzi, sul segreto di Emanuela Orlandi, sui misfatti dello Ior.
E potrei continuare, aggiungendo le difficoltà di ogni Vescovo di Roma, da decenni a questa parte, a fare i conti con le questioni del celibato e del sacerdozio femminile, o a misurarsi con i temi dei diritti, della morale sessuale e della famiglia. Ma mi fermo qui. La fine della coabitazione tra i due Vicari di Cristo si porta dietro una scia di veleni che non finirа con la sepoltura di Ratzinger nelle grotte vaticane. I “lupi” e i “demoni” che l’Emerito vide intorno a sè negli anni che precedettero il suo abbandono del ministero pietrino sono ancora tutti lì. Le ferite che il suo segretario Monsignor Ganswein ha scoperto dopo le esequie sanguineranno ancora a lungo. Non sappiamo ancora se adesso la nuova “solitudine” di Francesco sia per lui una ragione di forza o un motivo di debolezza, dentro una Chiesa di Cristo che anche in questo caso cede all’ “umano, troppo umano” di Nietzsche. Ma c’è un aspetto, nel trapasso di Benedetto XVI, che non finisce con lui.
Giustamente, nel momento in cui il Papa è morto e non c’è stato bisogno di farne un altro perché c’era giа, l’attenzione retrospettiva di tutti si è concentrata sul gesto clamoroso che ha “umanizzato” la Chiesa: le dimissioni, precipitate dentro un’istituzione millenaria che non le ha mai contemplate, e che l’hanno proiettata improvvisamente nella modernità. Un Pontefice che, ingravescente aetatem, ammette la sua finitezza, la sua fatica, la sua “incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato”. Un Pontefice che getta la spugna, e che al contrario del suo predecessore Wojtyla, rifiuta di offrire il suo corpo devastato a Dio e alla cristianità, fino all’ultima stilla di vita terrena.
Una scelta “rivoluzionaria”, senza dubbio, ma che non può assorbire ed esaurire il senso dell’intero pontificato ratzingeriano. Il lascito più discusso e fecondo del Monaco di Baviera (copyright il Manifesto) riguarda invece il suo ostinato contrasto alla “dittatura del relativismo”, la malattia mortale dell’Occidente. La prova è il famoso discorso di Ratisbona, il 12 settembre 2006, nel quale non c’è solo la citazione che fa esplodere lo scandalo interreligioso con le rovine delle Torri Gemelle ancora fumanti, cioè il dotto imperatore bizantino Manuele il Paleologo che dice «mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo e vi troverai soltanto cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la religione che egli predicava». In quel testo Ratzinger parla anche dell’irrinunciabile alleanza tra fede e ragione («In principio era il Logos, e il Logos era Dio…») e conclude dicendo «l’Occidente da molto tempo è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione… Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza, è questo il programma con cui una teologia impegnata in una riflessione sulla fede biblica entra nella disputa del tempo presente».
Una prova ancora più solida è il testo che legge al Bundestag, il 22 settembre 2011, quando evoca il conflitto tra bene e male, l’identità ebraica-greca-cristiana, e citando Hans Kelsen si lancia in una critica alla “Ragione Positivista” e all’Europa distratta, perché «dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi minaccia la sua umanità». Da lì nasce la sua apologia dei “principi non negoziabili”, di cui soprattutto a destra si appropriano strumentalmente molti “atei devoti” per giustificare scelte politiche discutibili e spesso inaccettabili. Certamente, come ha scritto in modo magistrale Vito Mancuso, queste tesi di Ratzinger riflettono l’idea di un uomo che ha paura, che lancia il suo grido d’allarme perché vive la laicizzazione e la scristianizzazione come una minaccia per l’Occidente e le parole della scienza come un pericolo per quelle di Gesù. E certamente ha ragione chi vede Ratzinger come una “figura tragica” e davvero novecentesca, un Papa deluso dalla Chiesa, dalla Storia, dai cristiani, dall’anima della sua Europa, da una fede ridotta a giaculatoria e da una ragione ridotta a strumento.
Ma con il suo testamento morale bisognerà ancora farci i conti, da qualunque parte politica e culturale si provenga. Ha scritto Mario Tronti: «Un Papa conservatore? Dovremmo tutti imparare a non sbeffeggiare troppo questa parola. In un mondo e in un tempo in cui si portano i valori al mercato e si vendono come prodotti a scadenza ravvicinata, evocare valori non negoziabili serve a contrastare questa deriva». Persino conservare il meglio del passato, in qualche caso, può diventare un atto di rinnovamento. «Superare conservando», ci ha insegnato una volta per tutte il vecchio Hegel, «dai cui rami tutti discendiamo».
Lungo questi sentieri, più o meno tortuosi, potremmo persino arrivare a Luigi Pintor, e al suo meraviglioso Servabo. Alla ruota della Storia che gira su sé stessa, avanti o all’indietro. Alla “favola folle” delle tenaci passioni, i nobili ideali, le generose intenzioni, le fatiche e gli errori delle nostre esistenze, che sono in ogni tempo il sale della terra, ma poi basta una pioggia a lavare la terra e a sciogliere il sale nell’acqua. E allora, Servabo. Un piccolo ma potente scrigno verbale. Che racchiude suggestioni e significati diversi. Che può voler dire “conserverò, terrò in serbo, terrò fede. O anche servirò, sarò utile…”. Questo sì, Ratzinger o non Ratzinger, è un compito che ci riguarda e ci interroga tutti. Credenti, non credenti, miscredenti.
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