Laura Crivelli – Dall’impunità alla cultura del consenso
Il codice penale svizzero in materia sessuale tuteli le vittime di violenza
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Il codice penale svizzero in materia sessuale tuteli le vittime di violenza
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Il codice penale svizzero in materia sessuale tuteli le vittime di violenza
Il progetto di revisione del diritto penale sessuale svizzero ha provocato lo sdegno di buona parte della società civile e di alcuni partiti. Numerosi politici, organizzazioni nazionali, accademici, scienziati, associazioni delle vittime, ritengono tale progetto obsoleto e sessista. La procedura di consultazione si è conclusa un mese fa, ma il dibattito pubblico è lungi dall’esser terminato. Per comprendere le criticità della revisione proposta dall’Amministrazione federale, abbiamo intervistato Laura Crivelli. Ticinese cresciuta a Ginevra, giurista, membro del gruppo di lavoro sul consenso e dei Collettivi romandi per lo Sciopero femminista, Laura Crivelli è specializzata in questioni di genere nella cooperazione internazionale.
Attualmente cosa prevede il codice penale svizzero in materia di crimini sessuali?
L’articolo 189 definisce coazione sessuale “gli atti analoghi alla congiunzione carnale o a un altro atto sessuale, consumati tramite l’utilizzo di minaccia o violenza, pressioni psicologiche o rendendo la persona inetta a resistere”. L’articolo 190 definisce la violenza carnale “un atto di congiunzione carnale consumato tramite l’utilizzo di minaccia o violenza, pressioni psicologiche o rendendo una persona di sesso femminile inetta a resistere”. Questi articoli prevedono pene pecuniarie e pene detentive da uno a dieci anni. Risultano problematici poiché superati da tempo: entrambi non prendono in considerazione il concetto di consenso, mentre il 190 ignora del tutto le vittime di sesso maschile o appartenenti alla comunità LGBTIQ+. Il “no” della vittima o l’assenza di consenso non sono sufficienti per vedersi riconosciuto il fatto di aver subito violenza; nel nostro ordinamento giuridico la vittima deve dimostrare di essersi opposta al suo aggressore in ogni modo possibile. Tale approccio sposta parte della responsabilità sulla vittima, la quale rischia di vedere a processo il proprio comportamento, invece di quello di chi ha commesso il reato. Le definizioni risalgono al 1951 e da allora non sono più state modificate. La società civile e femminista chiede da più di vent’anni una revisione della legge, considerata ormai superata e inadeguata al contesto odierno. C’è voglia di cambiare, ma di farlo in bene: le vittime non possono aspettare altri 70 anni. Al momento mancano tutti gli strumenti giuridici atti a tutelare le vittime o a fare opera di riparazione: le difficoltà nel denunciare, nell’andare a processo e nel provare che si è subita violenza, dimostra che viviamo ancora in una società fondata su machismo e patriarcato.
Quali criticità si possono individuare nella revisione proposta?
In primo luogo l’introduzione dell’articolo 187a, che prevede il concetto di aggressione sessuale. Questa infrazione copre gli atti sessuali commessi contro la volontà della persona o inaspettatamente, approfittando di uno stato di sorpresa o di shock che impedisce alla vittima di reagire. Le penetrazioni sessuali non consensuali verranno trattate come violazioni sessuali, ovvero reati minori, e non come stupro, che è considerato un crimine. La gravità della sanzione verrà quindi stabilita dal comportamento della vittima, che non è riuscita a difendersi perché paralizzata dallo shock oppure assoggettata a un rapporto di fiducia. Considero inaccettabile che l’aggressore che non ha ricorso ad armi o altri mezzi violenti per commettere reato, rischi una pena fino a tre anni di carcere, mentre lo stupro prevede fino a dieci anni. Com’è possibile fare una differenza tra stupro violento e non violento? Una persona che subisce un atto di questa portata è sempre vittima di una violenza estrema. Non vogliamo che la revisione della legge permetta di condannare l’aggressore in base a come ha reagito o non ha reagito la vittima. Bisogna punire il crimine, non chi lo subisce. Inoltre il gruppo di revisione della legge non prende in considerazione l’ultima definizione, a cui la Svizzera ha aderito nel 2018 tramite la ratifica della Convenzione di Istanbul: risulterebbe normale e logico, anche dal punto di vista giuridico, prendere l’ultima definizione a livello internazionale e aggiornare il diritto interno in base a quella. Rivedere solo parzialmente gli articoli 189 e 190 e integrare l’articolo 187a significherebbe commettere una violazione dei diritti umani, oltre che perpetuare logiche di colpevolizzazione delle vittime.
La Convenzione di Istanbul prevede una definizione di stupro basata sull’assenza di consenso. Cosa significa?
Se non vi è libera ed espressa volontà delle parti nel partecipare all’atto sessuale, il rapporto viene riconosciuto come non consensuale. Numerosi paesi europei hanno già adeguato la propria legislazione interna in tal senso o stanno per farlo, così da allinearsi al programma di prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne. Si può prendere a esempio il modello svedese, che ha incluso la nozione di consenso esplicito nelle leggi già dal 2016: delle definizioni di aggressioni sessuali in assenza di consenso hanno permesso di attuare campagne d’educazione e di prevenzione tra i giovani. Il Consiglio federale svizzero ad aprile ha pubblicato la strategia nazionale per la parità tra donne e uomini: una delle priorità per il triennio 2021-23 è adottare un piano d’azione nazionale per l’implementazione della Convenzione di Istanbul. Allora perché in questo momento si parla di un progetto in revisione che non riprende il minimo standard della Convenzione? Sino a quando non si cercherà di sradicare la violenza, per il nostro paese questo rimarrà un problema prioritario. Già nel 2003 la Corte europea dei diritti umani chiariva l’obbligo degli stati membri a punire gli atti sessuali non consensuali e a riconoscerli come stupri. La politica offre qualche segnale positivo nell’ambito dell’uguaglianza di genere e le dichiarazioni di misure ambiziose non mancano: ma i mezzi per attuarle non vengono investiti per assenza di volontà e priorizzazione. La trasformazione verso una società che rispetta l’uguaglianza di genere si poggia ancora abbondantemente sulle persone volontarie, in maggior parte donne, organizzate tramite reti della società civile.
Da parte del vostro Collettivo, quali sono le richieste atte a promuovere una cultura del consenso?
I membri dei Collettivi per lo Sciopero femminista riuniti a livello romando (con rappresentanti dei cantoni di Ginevra, Neuchâtel, Vaud, Vallese e Friborgo), così come il Collettivo ticinese, hanno preso posizione in maniera concertata e in linea con altre organizzazioni della società civile, tra le quali Amnesty International. Ritengono che questa revisione disconosca la realtà delle violenze sessuali e chiedono al Parlamento federale di garantire giustizia a chi subisce violenza. Il problema non si situa nella costrizione o nella minaccia, bensì nel mancato rispetto dell’autodeterminazione sessuale della persona, che è un diritto fondamentale. Bisogna dare un segnale positivo alle vittime, iniziando a considerare tutti i rapporti sessuali non consensuali come stupro. Tra le altre cose, i Collettivi propongono di: definire i reati sessuali come reati contro l’autodeterminazione sessuale; introdurre espressamente la nozione di consenso negli articoli 189 e 190; estendere la definizione di stupro nell’articolo 190 a tutti i generi; includere tutte le forme di penetrazione sessuale; rigettare il nuovo articolo 187a sulle aggressioni sessuali.
Come dovrebbe mobilitarsi la politica per combattere le violenze di genere?
Viviamo ancora in una cultura dello stupro che tollera l’impunità: nella nostra società c’è una rappresentazione della violenza che tende a screditare la vittima e a minimizzare il reato. Si colpevolizza la vittima per non avere lottato con colpi contro lo stupratore o non avere denunciato subito. Si tramanda il mito dello stupro perpetuato da un aggressore sconosciuto in un vicolo buio, ma secondo gli ultimi dati disponibili a livello svizzero (studio di gfs.bern, 2019) il 68% delle donne conosceva il proprio stupratore. Per me dovrebbe esserci un segnale forte a livello strutturale, come la creazione di un Ufficio federale che raccolga e analizzi dati, faccia vigilanza, implementi misure. Inoltre i centri di aiuto e di ascolto dovrebbero essere facilmente accessibili a tutte le vittime (secondo la Legge federale concernente l’aiuto alle vittime di reati – LAV), anche nelle aree rurali e di montagna, non solo nelle città. Andrebbero organizzate ore di formazione e di sensibilizzazione per medici e personale sanitario, corpi di polizia, giudici, insegnanti e tutti coloro che potrebbero essere coinvolti nella presa a carico della vittima. Anche i media veicolano delle rappresentazioni sbagliate. Non dobbiamo poi dimenticare l’industria, la sessualizzazione dei corpi, la normalizzazione della violenza in particolare contro donne e bambini. L’educazione al consenso dovrebbe partire da corsi di sensibilizzazione intergenerazionali e a tutti i livelli, perché il cambiamento passa anche dalla cultura. Ogni persona, indipendentemente dal suo genere di appartenenza, ha una responsabilità nella riduzione della violenza. Come familiari, amici, colleghi, o semplicemente esseri sociali, dobbiamo rivestire quotidianamente un ruolo importante nella prevenzione della violenza e nella protezione delle vittime.
Per completezza di informazione ricordiamo che nella procedura di consultazione il Consiglio di Stato ticinese ha chiesto di integrare il concetto di consenso nella definizione dei reati sessuali [ndr]
In caso di necessità: https://viveresenzaviolenza.ch/urgenza/
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