Le due facce della giustizia
Quelle tante volte in cui l’antifascismo italiano è finito sotto processo
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Quelle tante volte in cui l’antifascismo italiano è finito sotto processo
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Quelle tante volte in cui l’antifascismo italiano è finito sotto processo
Michela Ponzani, Processo alla Resistenza, L’eredità della guerra partigiana nella Repubblica 1915-2022, Einaudi.
È una delle pagine più buie della storia italiana, che costò la vita ad oltre 70mila persone. Più di 10mila erano civili e sono stati massacrati in esecuzioni di massa da militari nazisti del Terzo Reich. Dal dopoguerra ad oggi quasi tutti i responsabili delle stragi in Italia sono rimasti impuniti, e solo a partire dagli anni 2000, quando ormai anche i sopravvissuti erano quasi tutti morti, si è tornati a indagare sul loro passato. Grazie a un portale online “NS-Täter in Italien” possiamo conoscere i risultati di una ricerca condotta dall’Università di Colonia e finanziata dal ministero degli Esteri tedesco in collaborazione con tre partner italiani. In Germania, per molti anni, le persone hanno creduto al mito della guerra pulita condotta dalla Wehrmacht. In realtà, a commettere gli eccidi erano stati militari di ogni tipo, Waffen SS, Wehrmacht, Luftwaffe, volontari e coscritti, soldati semplici e ufficiali. Questa responsabilità collettiva ha contribuito alla rimozione individuale della colpa, permettendo ai massacratori di tornare nel 1945 tranquillamente a casa, senza pagare mai per i loro crimini.In questo momento ricordare è doppiamente fondamentale, perché sono tornati sulla scena europea partiti che non rinnegano quel passato di terrore, conservandoli nei loro simboli e nei loro slogan.
Quanto è diversa, invece, la storia dei 15-20 mila partigiani italiani processati dopo l’aprile 1945 nelle aule di giustizia della nuova Italia democratica …Mentre ex fascisti e collaborazionisti della Rsi, autori di stragi e crimini contro civili, sarebbero stati assolti, riabilitati e persino graziati per aver “obbedito ad ordini militari superiori” o semplicemente per la loro natura “di buoni padri di famiglia”, i partigiani sarebbero stati giudicati come responsabili (sia pure in via indiretta) per le rappresaglie scatenate dai nazifascisti, per non essersi consegnati al nemico. “Procedimenti penali per fatti tipicamente bellici, come requisizioni, perquisizioni uso legittimo delle armi” finirono con l’essere rubricati come “odiosi delitti comuni”, mentre già dal giugno 1946 fu concessa una larga amnistia per “fatti analoghi commessi dai collaborazionisti”.
Fu anzitutto la mancata equiparazione dei partigiani ai membri effettivi delle forze armate ad aprire le porte a un giudizio di irregolarità per le azioni di resistenza, valutate come episodi di criminalità comune. Una repressione sistematica condotta sul filo di un’offensiva giudiziaria espressamente politica (frutto dello spirito dei tempi, con la grave sconfitta elettorale delle sinistre e la fine dei governi di unità nazionale), che avrebbe giudicato la fucilazione di fascisti e collaborazionisti come omicidio premeditato, la requisizione di beni e viveri come rapina a mano armata o furto, gli atti di sabotaggio alle postazioni e alle linee nemiche come episodi di strage. Così, ancora nel marzo 1953 la Corte d’assise di Milano aveva gioco facile nel condannare un gruppo di sette partigiani, accusati di aver fucilato, il 29 aprile 1945, un noto gerarca, esponente di spicco del Pnf, “grande invalido di guerra e medaglia d’oro al valor militare”. A parere dell’accusa, l’omicidio era stato messo a punto con l’aggravante della premeditazione, per il puro scopo di rapinare la vittima di tutti i suoi averi.
E proprio mentre l’Assemblea costituente concludeva i suoi lavori, le porte delle patrie galere si aprivano a centinaia di militanti comunisti e socialisti imputati di adunata sediziosa, porto abusivo d’armi, occupazione di suolo pubblico. Coloro che avevano preso parte alla guerra di liberazione divennero per la magistratura italiana il “nuovo nemico interno”: una categoria rivisitata e radicalizzata, passata pressoché intatta (anziché essere abolita) attraverso le due fasi di transizione, dallo Stato liberale al regime fascista, e dal fascismo alla Repubblica. I nuovi nostalgici della galassia neofascista compirono incursioni violente contro sedi di associazioni partigiane, completamente devastate, in un clima di vera e propria “caccia al comunista”. Lettere anonime indirizzate ai giornali con insulti, volgarità, con grottesche ma violente minacce di morte contro ex partigiani imputati, divennero la regola in un progressivo svuotamento di senso delle ragioni dell’antifascismo.
Fra i tanti argomenti utilizzati dalla vasta schiera dei detrattori (non solo ex missini pentiti), la guerra partigiana inutile sul piano militare (tanto ci avrebbero liberato gli Alleati) e la colpa di aver scatenato una guerra civile in patria che invece sarebbe stata difesa fino alla fine dai combattenti di Salò.
Attraverso carte processuali e documenti d’archivio inediti, la storica Michela Ponzani ricostruisce il clima dell’epoca, le speranze tradite e i fallimenti di una generazione che pagò un prezzo molto alto per la scelta di resistere.
“Se qualcuno, quando eravamo sulle montagne a condurre la guerra partigiana, fosse venuto a dirci che un bel giorno, a guerra finita, avremmo potuto essere chiamati davanti ai tribunali, per rispondere in via civile di atti che allora erano il nostro pane quotidiano, gli avremmo riso francamente in faccia.” (Dante Livio Bianco).
Nell’immagine: 25 aprile 1945 Formazioni partigiane festeggiano la vittoria sul nazifascismo
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