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Le orme di Patrick Zaki
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Le orme di Patrick Zaki

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Le orme di Patrick Zaki
Ospiti e opinioni

Le orme di Patrick Zaki

Lo studente egiziano è ancora nel limbo della giustizia, sospeso fra etica e politica economica


Redazione
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Le orme di Patrick Zaki
• 25 Settembre 2021 – Redazione
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Di Nicoletta Vallorani, scrittrice e docente di letteratura inglese all’Università di Milano

Nelle ultime pagine di La follia di Almayer, di Joseph Conrad, un uomo si separa definitivamente da sua figlia. Sulla sabbia, ciò che resta di Nina, in fuga per amore, è un tracciato di impronte che suo padre si affretta a cancellare, scegliendo di dimenticare quel che lo inquieta. Pochi conoscono questo romanzo, ma la scena finale è indimenticabile, e dice qualcosa di significativo sui percorsi della memoria collettiva e di quella istituzionale.

Si lasciano orme, che non sempre restano visibili.

Patrick Zaki è stato arrestato, per ragioni sulle quali ancora non si ha certezza, il 7 Febbraio del 2020 all’aeroporto internazionale del Cairo. Da allora è in custodia cautelare, rinnovata di 45 giorni in 45 giorni, con accuse di associazione sovversiva e terrorismo (semplificando) che non hanno ancora una tessitura di prove attendibili. Amnesty International ha tenuto traccia dei vari passi di questa vicenda, raccontando l’isolamento e l’incomprensione con tutta la fedeltà possibile in circostanze di questo tipo. Zaki, di fatto, è stato tenuto in isolamento. I contatti con la famiglia sono stati esigui e centellinati nel tempo, e la mobilitazione in favore del ragazzo ha coinvolto in modo discontinuo le istituzioni italiane. A intermittenza, nel mezzo di altre urgenze, ci si è mossi, nel mondo, come si poteva e si voleva, per far sì che le orme di Patrick non venissero cancellate. A Roma, alla Camera, è anche stata presentata una mozione che chiede di dare la cittadinanza italiana a Patrick Zaki. Ma la questione è ancora sospesa.

Intanto, il 14 settembre, si è tenuta la prima udienza del processo relativo, parrebbe, a uno scritto di Zaki in difesa della minoranza copta in Egitto. È durata pochi minuti ed è stata aggiornata al 28 settembre, che non è necessariamente una cattiva notizia: così la difesa ha forse un po’ più di tempo per organizzarsi. Mentre le accuse di terrorismo basate su una decina di post su FB sembra siano cadute (e per quelle Patrick rischierebbe fino a 25 anni di carcere), resta possibile che, come spiegano alcune fonti giudiziarie in relazione alla vicenda, Patrick sia condannato a un periodo di carcerazione tra 6 mesi e cinque anni e a una multa consistente. A Mansoura, al processo, oltre al suo avvocato Hoda Nasrallah, erano presenti un manipolo di attivisti, un paio di diplomatici italiani e rappresentanti delle ambasciate della Germania e del Canada. La diplomazia internazionale è lenta ed esita, compressa tra necessità istituzionali e interessi economici: tutte questioni remote in quella che era la quotidianità devastata di un ragazzo come tanti.

Zaki era studente a Bologna, dove seguiva il master in Studi di Genere (GEMMA), allievo di quella Rita Monticelli che tanto si sta muovendo, insieme alla sua università e al Comune di Bologna, per far sì che questa vicenda non venga dimenticata. Nel tempo, si sono dipanate iniziative di base, interventi più o meno efficaci (ma comunque utili), dimostrazioni del fatto che la traccia di questa vicenda va conservata: perché è importante in sé stessa, ma ancora di più per la difesa collettiva di una libertà di parola che non è garantita in ogni paese. E il fatto che non lo sia credo che ci riguardi tutto: quello che si può fare in un pezzo di mondo ci riguarda, perché può verificarsi ovunque, e prima o poi rischia di toccarci da vicino. Nessuna comunità è davvero protetta se non lo sono tutte.

Dunque, nei percorsi di insabbiamento che spesso accompagnano queste vicende, Patrick Zaki è prezioso. Lo è in ragione del suo essere un ragazzo normale, normalmente impegnato in studi interessanti, dotato di una capacità di pensiero autonoma, inserito in una tela di affetti, legato a una famiglia lontana, che stava appunto andando a trovare quando è stato incarcerato. Non avremmo mai saputo il suo nome se non fosse stato arrestato e detenuto così a lungo. E avremmo preferito non saperlo, almeno non in questa contingenza. Nei 20 mesi circa che son passati dall’arresto e come di certo han fatto molti altri, non ho fatto che chiedermi una cosa: che cosa fa una comunità che si descrive come libera e democratica, e che è anche il posto dove Zaki stava completando i suoi studi, per capire il senso di questa vicenda e per risolverla? Ne ho concluso che la reazione più diffusa – della comunità intesa come organi di governo ma anche come gente comune – è quella di Almayer di fronte alla fuga di sua figlia: cancellare le orme, dimenticare, mantenere i rapporti diplomatici e commerciali, far finta che il problema non esista e non sia mai esistito.

A questa sistematica cancellazione si può resistere. È sbagliato pensare che la mobilitazione di base non conti. Ha tempi lunghi e richiede una ostinazione inconsueta. Rappresenta, credo, una assunzione di responsabilità individuale (altra pratica desueta) che acquista significato se si affianca ad altre assunzioni di responsabilità. E se si è tanti, il coro che risulta dalla somma di queste piccole voci può essere di straordinaria efficacia. L’anno scorso e quest’anno, si sono liberati nel cielo mille aquiloni col viso di Patrick Zaki, molte biblioteche si son riempite di sagome del ragazzo che non ha potuto continuare a essere studente, contest artistici e incontri si sono moltiplicati. Nell’insieme, tutte queste iniziative e altre ancora esercitano un elementare attivismo di base, spesso non troppo rilevato dai media, e tuttavia necessario a non spegnere la coscienza. Perché è poi questo che facciamo quando cerchiamo di non rimuovere la memoria: restiamo umani, manteniamo il senso di una comunità civile che non è chiusa ai confini nazionali, ma riguarda la dignità della persona, ovunque essa sia.

Il 19 settembre 2021 ho pubblicato il mio post no. 66 dedicato a Patrick Zaki. Ogni (maledetta) domenica un manipolo di gente comune mi affianca, condividendo qualche considerazione. In parecchi, ancora, ignorano i dettagli della vicenda, e la accantonano scientemente. Il ragazzo non è italiano (quasi che la libertà di pensiero avesse una nazionalità): dunque la questione non ci riguarda. Dell’Egitto, ricordiamo le piramidi e le opportunità economiche. Patrick Zaki non è nulla, un disturbo intermittente nel nostro quieto vivere. E però io credo che non sia così. Patrick Zaki ha una famiglia, degli amici, una vita, delle idee. Ce l’aveva, cioè. Se non siamo in grado di occuparci di un membro fragile della comunità – qualunque comunità – non possiamo dirci civili. E non possiamo essere globalizzati soltanto quando ci pare: i confini non si fanno permeabili solo quando è in ballo un profitto o una necessità economica.

Così le orme di Patrick Zaki attraversano un confine, quello tra l’etica e la politica economica. Cancellarle è un atto di mancata consapevolezza, e la mancata consapevolezza ci rende complici e strumenti. Deroga alla dimensione etica che ci rende umani (o che dovrebbe farlo) e ci trasforma in tanti piccoli Almayer, impegnati a rimuovere quello che ci turba.

E non è un gran risultato.






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