È uscito da poco “La breve vita di Lukas Santana”, il nuovo romanzo della scrittrice albanese Elvira Dones: una storia carceraria che sa farsi drammatica testimonianza di una delle più grandi ingiustizie umane, la pena di morte
“Mi interessano le storie albanesi, e non poteva essere altrimenti, ma anche le storie degli altrove che fanno parte di me, dei Paesi in cui ho viaggiato e dove ho vissuto. Ho un’indole vagabonda: amo fare parte di mondi e culture diversi, addentrarmi nelle lingue e nelle realtà più disparate. Cerco di cogliere l’essenza e di raccontarla, in narrazioni letterarie ma anche in documentari televisivi”.
È una delle significative dichiarazioni rilasciate da Elvira Dones a Roberto Saviano in un articolo uscito recentemente sul settimanale domenicale “La Lettura” (11.6.23, pp. 8-9). Vi si trovano infatti, in bella sintesi, diversi tratti costitutivi della scrittura di questa scrittrice albanese residente da anni in Ticino, giunta al suo settimo libro con “La breve vita di Lukas Santana”. Dones, in effetti, è autrice particolarmente attenta, per vocazione si direbbe,al valore testimoniale dei suoi romanzi; racconta quello che sa, che conosce, che ha lungamente indagato in appassionate ricerche che ha saputo trasformare in libri e documentari televisivi.
Il suo è uno sguardo partecipe e coinvolto sul baratro di tragedie come quella che ha incendiato per anni la sua terra, oppure, come in quest’ultimo caso, quella che definisce “una delle più grandi ingiustizie umane”, la pena di morte, così come viene inflitta quasi settimanalmente nella capitale mondiale delle esecuzioni, Huntsville, nel Texas. Siamo insomma nel profondo sud degli Stati Uniti, Paese che Elvira Dones conosce per averci vissuto ben 12 anni e per aver seguito da vicino le estreme giornate di vita di diversi condannati a morte.
Siamo, per intenderci, nel Paese delle opportunità e delle libertà, ma anche, e nello stesso tempo, in una realtà drammaticamente contraddittoria, che fra le sue tante leggi ha quella detta “Sulle bande”, che consente con terribile disinvoltura di mandare a morte chi appartiene ad un’organizzazione criminale anche senza aver mai commesso un omicidio, senza aver mai ammazzato nessuno, insomma.
È questo il caso di Lukas Santana, di famiglia immigrata clandestinamente in Texas dal Messico, cresciuto in un contesto di estrema povertà, di vera miseria, da cui si può forse uscire se si partecipa anche solo marginalmente a giri illegali di piccola o media criminalità, dal traffico di stupefacenti al controllo della prostituzione. È pressoché fatale che giovani, cresciuti a calci, pugni e bestemmie, finiscano nelle maglie di tali organizzazioni, di bande come quella dei Chicanos dell’amico fraterno ( si fa per dire) Blake Morales; una cricca cui Lukas aderisce senza averne precisa coscienza, tanto per guadagnare qualche soldo da portare magari a casa da mamma Miriam, o da spendere con la fidanzata Beatriz.
Finché non accade l’irreparabile, ci scappa il morto in uno scontro a fuoco cui Lukas neanche partecipa, ma che lo vede subito fra i sospettati ed immediatamente arrestato. A questo punto, entra in azione, drammaticamente, la morsa di una giustizia tutta rivolta alla sola persecuzione e punizione. La colpevolezza non è da accertare, ma da confermare, in ogni modo. Del resto, l’assurdo copione investigativo è tutto legale, compreso il fatto che la polizia possa costringere l’indagato a confessare, con ogni mezzo. Inesorabilmente “colpevole”, Lukas è condannato alla pena capitale e trasferito nel braccio della morte, dove resta in attesa dell’esecuzione per oltre 10 anni.
Dieci anni terribili, vissuti fra depressione e rassegnazione, in un alternarsi di stati d’animo che Elvira Dones racconta mirabilmente, con una scrittura piena di pathos emotivo, di grande partecipazione umana, nel descrivere le relazioni di Lukas con altri carcerati, quelle “a distanza”, epistolari, con il criminologo svizzero Thierry Morel, e soprattutto quelle che innervano l’umanissimo rapporto con la propria famiglia. Sono le donne qui, ad avere una parte fondamentale e ad emergere in tutta la loro forza disperata: dalla mamma Miriam alle zie, Ynez e Flora, alla sorellina Maya, fino a Betty, ovvero Beatriz, la fidanzata che lo vorrà sposare in una cerimonia che ha dell’incredibile. È un mondo femminile che diventa un potente fulcro narrativo di questo bel libro di Elvira Dones, bravissima nel descrivere situazioni (attraverso immagini, suoni, odori) che si sviluppano nel silenzio di esistenze ferite a morte, abbandonate a sé stesse, in balìa di un destino crudele ed ingiusto. E poi i dialoghi, a volte fulminei, asciutti, abilmente costruiti su nuclei incandescenti delle relazioni famigliari, sanno raccontare coralmente, con la voce dell’una o dell’altra (e di Lukas) le pieghe più segrete di un’esistenza passata nel braccio della morte.
Difficile, davvero, dimenticarsi di Lukas e delle sue donne a lettura ultimata. Quando resta un senso di sconvolta impotenza, di rabbia, di dolore, pensando, magari, alla più giovane, Maya e alla sua infinita tristezza; quella tristezza che “aveva disciplina e costanza, strisciava muta e lenta, ti avvolgeva e premeva fino a strizzarti via la vita. Questo Maya l’aveva capito poco per volta. Perciò entrare nel dolore del prossimo era pericoloso; ogni membro della famiglia aveva la propria scatola di piombo, le proprie catene alle caviglie. Bisognava stare attenti e tenere a bada tutto questo, perciò niente parole che appesantissero il dolore e neppure frasi sdolcinate, ché non ci stavano proprio. Non era colpa di Betty, nemmeno della mamma, e nemmeno di Maya stessa se molte cose le tenevano chiuse a chiave, ognuna per conto proprio e a modo proprio.” (p.315)
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