Ci sono, nelle nostre vite, incontri lontani nel tempo che però lasciano un segno profondo. Le strade si dividono, il segno non si cancella. Nella fattispecie, raccontare Adriano Soldini è un esercizio di memoria e di gratitudine che mi riporta – e riporterà coloro che lo hanno conosciuto – a un’epoca quasi remota, inversamente lontana rispetto alla vicinanza e all’affetto che la sua figura continua a suscitare.
Le strade di Adriano Soldini, appena uscito per le Edizioni Casagrande di Bellinzona, è una miscellanea di testimonianze curata dal figlio Simone – per 23 anni direttore del Museo d’arte di Mendrisio – che ricostruisce l’intensa, multiforme attività paterna. Dopo la laurea in Lettere a Friburgo, sotto la guida di Arcari e Contini, dal 1947 Adriano Soldini insegnò italiano e storia al Ginnasio e al Liceo di Lugano, che diresse dal 1963 al 1971 (’68 compreso); dal 1973 al 1986 fu direttore della Biblioteca cantonale: nella splendida Sala di lettura (firmata da Rino Tami) organizzò centinaia di incontri con personalità di spicco del mondo italofono e d’oltre San Gottardo.
Duttile, aperto, curioso, Adriano Soldini ha collaborato a due storiche testate ticinesi contrapposte, di cui frequentava le redazioni: Gazzetta Ticinese, insieme agli amici Mario Agliati, Giuseppe Martinola, Pino Berrnasconi, Renato Regli, Piero Bianconi, che ne firmavano i corsivi; Libera Stampa, con i sodali Pietro Salati e Eros Bellinelli, di cui curò in prima persona, dal 1974, il Raccoglitore culturale mensile.
Il volume raccoglie le testimonianze di persone che hanno conosciuto e frequentato Adriano Soldini: Alberto Nessi, il nipote Piero Pagliarani, Flavio Medici, Maria Will, Orazio Martinetti e Renato Simoni, ai quali si aggiunge, in apertura, il ricordo affettuoso e privato dell’altro figlio, Nicola, intitolato Papà era interista?
Complice il primo confinamento, Simone Soldini si decide, nel marzo 2019, ad aprire il baule nel quale stavano scritti, appunti, fotografie e oggetti vari che il papà aveva lasciato, alla sua morte, il 5 febbraio 1989. Il materiale viene riordinato, ma ben presto i figli decidono di fare un passo ulteriore dedicando ad Adriano anche una pubblicazione. Doveva essere breve, si è tramutata in un documento irrinunciabile per quanti vogliano approfondire la figura di questo figlio del Mendrisiotto, bonario e rotondo, curioso, attento ai bisogni, alle disparità, al dibattito culturale e politico, ma anche allo sport e al costume.
Sono molti i figli degli anni Cinquanta e dei primi Sessanta ad avere incrociato il cammino con lui: per me, fresco di studi in Lettere a Firenze, è stato anche il primo “capo”, il primo datore di lavoro. Era il 1985: grazie a una borsa di studio collaborai per 6 mesi all’Archivio Prezzolini occupandomi delle carte di Ennio Flaiano acquistate, come quelle del fondatore de La Voce, proprio grazie alla sensibilità e alla caparbietà di Soldini. Molte furono infatti, tra i banchi della politica e dell’intellighènzia locale, le perplessità legate ai costi di quelle acquisizioni, ma anche al fatto che né Flaiano né Prezzolini, per quanto importanti, fossero né svizzeri né tantomeno ticinesi. Adriano, Direttore della Biblioteca, non indietreggiò di un millimetro e mise in campo una capacità di convincimento e una trasversalità “politica” che sapeva avvicinare i fronti e aprire porte. Senza di lui, semplicemente, oggi non avremmo né l’Archivio Prezzolini né il riverbero positivo d’immagine di cui gode in mezzo mondo.
Cosa leggere (o rileggere) allora di Soldini a oltre 30 anni dalla morte, che risale al 5 febbraio 1989? Secondo me, almeno Corti e chiosi del Mendrisiotto, del 1965, illustrato da splendide fotografie di Luciano Moroni-Stampa, Alberto Flammer, Gino Pedroli e Gotthard Schuh. E, soprattutto, la raccolta di prose Le strade rosse (uscita nel 1951, ripubblicata in edizione ampliata nel 1992 dalla Fondazione Ticino Nostro). La scrittura è alta, con richiami ad Antonio Baldini, Cecchi e Ridolfi (ma non mancano echi manzoniani e leopardiani). Forti i riferimenti al paesaggio fisico e antropologico del Mendrisiotto dell’immediato secondo dopoguerra e ad una nuova realtà – operaia e terziaria – che stava sostituendo la civiltà contadina dalla quale Soldini stesso scaturiva. Prevalgono tuttavia, i paesaggi interiori descritti con venature malinconiche e controllato lirismo: in questo distinguendosi da quegli autori ticinesi coevi – Plinio Martini e Giovanni Orelli – che, sul modello di Pavese, Fenoglio, Vittorini, puntavano su un registro di più ruvido e immediato realismo.
Aperto, disponibile, generoso. Non, però, remissivo (come detto sopra in relazione all’acquisto dell’Archivio Prezzolini) né tantomeno accomodante: si vada a rivedere l’intervista televisiva TSI del 13 aprile 1978 che Soldini fece allo stesso Giuseppe Prezzolini, in cui annunciò il proprio disaccordo sulla tesi di fondo del Manifesto dei Conservatori (Rusconi,1972): “Mi pare che l’idea conservatrice che Lei espone e sviluppa non dia una risposta alla forma da dare alle istituzioni in alternativa alla democrazia”.
Prezzolini incassò il colpo, tentò di replicare, ma sembrò, per una volta, un po’ a corto di argomenti.