Le Temps – Rivka, Boushra e Gerusalemme lacerata
Due donne di Sheikh Jarrah, quartiere arabo della “Città santa”, dove si vuol procedere all’esproprio di alcune case palestinesi
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Due donne di Sheikh Jarrah, quartiere arabo della “Città santa”, dove si vuol procedere all’esproprio di alcune case palestinesi
di Aline Jaccottet, Gerusalemme
“È la strada del silenzio. Qui, non ci si parla più, le parole servono solo per insultarsi, si urla il proprio dolore senza essere ascoltati, si impone senza mai condividere. A Gerusalemme Est, la strada principale di Sheikh Jarrah, quartiere ormai noto in tutto il mondo, è il teatro di una mobilitazione che non ha fatto che crescere dall’inizio del Ramadan, oltre un mese fa. Al centro della tensione, la politica israeliana di espulsione di famiglie palestinesi, e favorevole alla comunità ebraica. Sheikh Jarrah è al centro dell’incendio della Città Santa, e, ancor più, di una gioventù araba al limite del sopportabile.
Epicentro di questa battaglia senza tregua per la terra, ci sono anche Rivka e Boushra. A Sheikh Jarrah, tre case separano la giovane israeliana ebrea dalla sua vicina palestinese musulmana. Pochi metri, ma che rappresentano un universo: le due donne, della stessa età, non si sono mai parlate. Domenica scorsa, hanno tuttavia accettato di aprire la porta della loro….vita. Solo qualche minuto, avvertendo la violenza in arrivo. Gas lacrimogeni, granate assordanti, tiri di proiettili, cariche della polizia israeliana a cavallo, cannoni ad acqua, maleodorante che appestano l’aria. Tutte le sere, da qualche settimana, la loro strada diventa un terreno di guerra.
Una tensione invivibile per Boushra la palestinese, il cui volto è agitato da continui tic nervosi; le sue mani tremano; tradiscono notti insonni e giornate senza riposo. Accasciata su una sedia di plastica davanti alla porta della sua abitazione, questa giovane infermiera che nessuna guardia del corpo protegge, allarga le braccia davanti alla richiesta di testimoniare. Per ascoltare la combattiva Rivka è stato invece necessario parlare con diversi uomini armati. Poliziotti israeliani che, mitraglietta in pugno, circondano la sua casa; e gli uomini della sua famiglia, molto reticenti all’idea di far entrare una straniera.
Mentre superiamo la soglia della casa di Rivka, i canti arabi che invocano ‘libertà’ gareggiano con l’inno nazionale israeliano. Inno scandito da una ventina di giovani raccolti in cima a una scala costruita in tutta fretta, su una piattaforma utilizzata anche come sinagoga e come scuola. In alcuni passeggini in cattivo stato, dei piccoli dormono placidamente. “Scusate il disordine”, ci dice lci dice la bionda Rivka, visibilmente incinta. Un piccolo locale invaso da vestiti, un tavolo traballante, un divano sfondato, su cui un adolescente dallo sguardo inquieto digita su un portatile, di sicuro non nuovissimo.
Ma per Rivka è un paradiso. “Voglio assolutamente rimane, nonostante questi teppisti, che tutte le notti cercano di aggredirci”, si lamenta mentre entra suo marito, un occhio pesto, conseguenza di “un litigio con un arabo”, occhio che impressione più della sua folta barba. Rivka sospira: “Non capisco se nessuno li ammonisce, o se non sentono ragione. Gli arabi non capiscono che questo luogo ci appartiene: noi eravamo qui molto prima di loro. Ho paura per i miei figli, ma non me ne andrò. Israele e Gerusalemme ci appartengono, per l’eternità”, afferma con determinazione prima che il marito, assai nervoso, dice che l’incontro è finito: “Non mi piace avere degli stranieri in casa”.
Appena a trecento metri di distanza, percorsa tra una folla di manifestanti diventata più densa col passare delle ore, eccoci in una realtà del tutto diversa, quella di Boushra. “Ci vogliono male”, commenta tremando al passaggio di un uomo che indossa la kippà e lo scialle della preghiera. Boushra vive in un’abitazione da bassifondi. Si intuisce che in altri tempi è stata una casa superba, una casa in pietra bianca, che condivide con i suoceri, e che ora cade in rovina. “Se cerchiamo di fare delle riparazioni, o qualsiasi altra cosa del genere, c’è l’espulsione”, afferma aprendo la porta della sua camera, dove l’aria è irrespirabile a causa della muffa.
In un angolo della sala silenziosa e fredda, una donna anziana, handicappata, è sdraiata sotto una coperta. “Mia zia”, dice Boushra. La stanze danneggiate parlano di un’esistenza bloccata nell’attesa di uno sfratto. Nel giardino abbandonato, l’altalena di un bambino. Come quella di Rivka, ma quella di Boushra non viene utilizzata. La giovane palestinese ha affidato alla madre sua figlia di tre anni, traumatizzata dalle violenze. “Mi manca”, confessa Boushra. Ed è come se dentro di lei qualcosa si spezza.
Boushra e Rivka non si incontrano. Su una sola cosa sarebbero d’accordo: il rinvio della procedura di sfratto per alcune famiglie palestinesi, annunciato da un procuratore generale dello Stato sotto pressione, non cambia nulla. Un giorno, Boushra dovrà andarsene perché la legge israeliana dà ragione a Rivka. La sconfitta della prima sarà una vincita per la seconda, in una equazione insopportabile per gli abitanti arabi. Le violenze continuano nella città vecchia di Gerusalemme, che gli israeliani considerano unificata dalla riconquista seguita alla ‘guerra dei sei giorni’ del 1967, ma che agli occhi del visitatore sembra più divisa che mai. I commercianti del suq palestinese sono piombati in un inconsueto silenzio, carico di collera, mentre da parte ebraica regnava l’allegria per la ‘Giornata di Gerusalemme’, fonte di tutti i pericoli. Contrasto brutale, in cui questo infinito conflitto affonda le sue radici mortifere.
Pubblicato da Le Temps l’11 maggio 2021
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