Piccolo temporale di fine agosto: il Consiglio federale ha annunciato di voler rivedere il divieto di costruire nuove centrali atomiche, sancito il 21 maggio del 2017 dal 58% dei votanti che aveva accettato la nuova legge sull’energia. Una presa di posizione che costituisce una specie di controprogetto indiretto all’iniziativa ‘Stop al blackout’ la quale, lanciata dall’UDC e ambienti a lei vicini, vorrebbe inserire nella Costituzione federale l’autorizzazione a impiegare tutte le forme di energia che rispettino l’ambiente e il clima, atomo appunto compreso.
La questione merita alcune considerazioni di carattere politico e tecnico. Anzitutto è necessario confutare l’accusa fatta al Governo di non rispettare la volontà popolare. In effetti “solo gli imbecilli e i morti non cambiano mai idea”, come ha scritto il letterato statunitense James Russell Lowell.
Postille necessarie: vero che per cambiare idea bisognerebbe prima costruirsene una, soprattutto in un mondo sempre più social in cui l’aforisma è innalzato a manuale di vita; vero anche, in un mondo sempre più aculturato e protocollato, che esistono anche i cosiddetti iperimbecilli, o imbecilli al cubo, ossia coloro che lo fanno immediatamente dopo aver ricevuto l’ordine dal capo (vista la dichiarata morte delle ideologie, una via di mezzo evolutiva tra il “credere, obbedire, combattere” di fascistissima memoria e il comunisteggiante “controordine compagni!”).
Ammesso assiomaticamente che il consigliere federale Albert Rösti e i suoi collaboratori non appartengono né all’una né all’altra di queste due categorie, bisogna anche ricordare che la storia politica svizzera è piena di proposte accettate in votazione popolare dopo una serie di rifiuti (a memoria: AVS, assicurazione maternità…) e di revisioni legislative e costituzionali che contraddicevano l’esistente, anche in quella nicchia vaccasacrista che sono i diritti popolari (ricordo in proposito l’ingloriosa fine dell’iniziativa legislativa federale, cassata pochi anni dopo essere stata approvata da popolo e cantoni per manifesta inapplicabilità).
Il Consiglio federale quindi ha tutto il diritto di cambiare idea e di proporre alternative all’esistente, in qualsiasi campo. Su questo preciso argomento ne avevano addirittura il dovere, visto che lo scorso 6 marzo il Consiglio degli Stati ha approvato un postulato di Thierry Burkart (PLR) che chiede appunto al Governo di studiare la possibilità di costruire nuove centrali nucleari. Detto, fatto (sorprende piuttosto la velocità della risposta, davvero inusuale, tanto da far venire il dubbio che fosse già bell’e pronta, ma tant’è).
Il problema di Rösti e dei suoi sostenitori è che la porta al nucleare l’hanno immediatamente chiusa non i soliti ambientalisti rossoverdi, ma gli stessi addetti ai lavori. È il mercato insomma, il Dio in terra dei partiti di centrodestra, ad avere detto no. BKW e Axpo, i gestori delle centrali nucleari esistenti, pur dicendosi in linea di principio favorevoli allo sviluppo della tecnologia atomica (e ci mancherebbe altro) in questo sono stati chiarissimi: gli altissimi investimenti necessari risultano redditizi solo se è garantita una fase prolungata di prezzi energetici alti (dopo l’impennata degli scorsi anni, stanno nuovamente e fortunatamente scendendo, ndr), e solo nel caso in cui lo Stato o le costruisse lui o le sovvenzionasse in larghissima misura. Investimento pubblico per guadagni privati insomma. Come i partiti di centrodestra, credenti osservanti del Dio mercato e della conseguente dicotomia “pubblico cattivo/privato buono” riescano ad accettare una simile prospettiva resta un mistero.
Politico appunto, ma non solo; anche economico, perché tra le cose non dette vi è anche una non indifferente questione finanziaria. Quanto costa costruire (e poi mantenere e infine smantellare) una centrale nucleare oggi? Difficile rispondere, ogni caso è a sé. Quelli di cui siamo a conoscenza non lasciano spazio a grandi interpretazioni: un reattore EPR in Finlandia, che doveva costare 3 miliardi di euro e aprire nel 2009, ha iniziato a produrre elettricità solo nel 2023 (!) con un costo di 11 miliardi di euro (circa 10 di franchi al cambio attuale); in Francia l’EPR di Flamanville che avrebbe dovuto entrare in funzione nel 2012 al costo di 3,5 miliardi di euro è invece ancora in costruzione – nel frattempo i costi sono lievitati a 12,4 miliardi; due reattori in costruzione nella Carolina del Sud sono stati abbandonati nel 2017 dopo un investimento di 9 miliardi di dollari (8 di franchi circa); due altri in Georgia dovevano essere avviati nel 2016/2017 ad un costo di 14 miliardi di dollari, ma finora è stata avviata una sola unità nell’aprile del 2023, mentre la seconda dovrebbe essere allacciata entro quest’anno ad un costo totale di oltre 30 miliardi di dollari (27 circa di franchi, ossia 13,5 l’uno); la centrale nucleare inglese di Hinkley Point C (due reattori del costo di circa 31 miliardi di franchi, 15,5 l’uno) sta venendo completata solo grazie a fideiussioni statali a garanzia dei prestiti, ad elevate sovvenzioni e alla garanzia di un prezzo d’acquisto dell’elettricità garantito per 35 anni molto maggiore di quello di mercato.
Mediamente insomma, una nuova centrale nucleare di ultima generazione dovrebbe costare circa 12 miliardi di franchi, non bruscolini (l’Ufficio federale dell’energia ne stima 11). Dove e in che modo i fautori del contenimento della spesa pubblica, dato per scontato che l’industria da sola non intende costruire alcun nuovo reattore, possano reperire tutto o parte di una simile somma senza intaccare altre voci di spesa dello Stato è un ulteriore mistero.
Vi sono tuttavia i reattori di quarta generazione, che teoricamente dovrebbero permettere di usare il combustibile in modo più efficiente, minimizzare la produzione di scorie e pure abbassare i costi. Teoricamente appunto, visto che al momento sono ancora allo stadio di prototipo, esperimento e dimostrazione e la loro commercializzazione sicuramente non inizierà prima del 2030 (viste le difficoltà che stanno incontrando, probabilmente anche dopo). Non solo: i modelli econometrici attuali non sono fatti per valutare i costi di tecnologie nucleari alternative o dei loro sistemi integrati ma piuttosto per confrontare i costi dell’energia nucleare con quella dei combustibili fossili, per cui la valutazione del loro reale impatto economico non è per nulla certa.
Sia come sia, nel migliore dei casi la Svizzera non vedrà alcun nuovo reattore nucleare prima di 25 anni, ossia proprio quando dovrebbe essere implementata la strategia energetica 2050 che, ricordiamo, dovrebbe permettere di abbandonare definitivamente il nucleare. Ci si chiede dunque il motivo per cui, politicamente, si dovrebbero investire miliardi in una tecnologia che sarà operativa proprio quando teoricamente non dovrebbe più essercene alcun bisogno.
Nuove centrali addio quindi? “Ni”, perché bisogna ammettere che, malgrado appunto l’espansione delle energie rinnovabili dovrebbe rendere superflua l’energia nucleare dopo il 2050, la maggior parte dei modelli ipotizza che bisognerà continuare a fare affidamento sull’energia di banda per stabilizzare la rete elettrica e avere elettricità a sufficienza anche in inverno, cosa che difficilmente potrà avvenire senza nucleare.
Forse però un nuovo tipo di nucleare, non più la fissione, il modello attuale, ma la fusione. In effetti il 5 dicembre 2022 ricercatori americani hanno annunciato la prima fusione con bilancio energetico apparentemente positivo, mentre proprio a inizio anno il consorzio europeo EUROfusion ha annunciato risultati ancora migliori. Attualmente esistono programmi di ricerca in oltre 50 paesi e il rapporto Fusion Outlook 2023 dell’AIEA riporta che nel mondo più di 140 macchine per la fusione, frutto di progetti pubblici e privati, sono in funzione, in costruzione o in fase di progettazione. Musica del futuro, certo, ma che gli esperti stimano potrebbe essere realtà verso il 2060. Se proprio si vogliono investire miliardi nell’atomo, perché allora non farlo in questa direzione?
Nell’immagine: uno dei progetti nucleari abbandonati nel Sud Carolina