La lotta continua
Nessuno parla più di lotta di classe, ma non è mai finita e sono i ricchi che la stanno vincendo
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Nessuno parla più di lotta di classe, ma non è mai finita e sono i ricchi che la stanno vincendo
• – Maurizio Solari
Al Ticino servono aziende che hanno bisogno di versare salari da fame per andare avanti?
• – Marco Züblin
Probabilmente no, ma andrebbe praticata di più e meglio
• – Virginio Pedroni
Boicotta il consiglio federale, viola il principio della collegialità e getta benzina sul fuoco delle controversie Covid
• – Daniele Piazza
Le ricorrenze che si ricordano, e quelle che si dimenticano
• – Marco Züblin
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• – Franco Cavani
Nulla di nuovo, al di là di qualche penoso evento di contorno
• – Marco Züblin
Il lato oscuro delle tecnologie avanzate al servizio del controllo sociale
• – Redazione
Nessuno avrà dimenticato quei titoli: “È un italiano che vuole l’educazione civica nelle scuole del Canton Ticino”; “Un italiano impone educazione civica ai ticinesi” (Corriere...
• – Redazione
La paura cominciata quel giorno si è diffusa e infiltrata come un lento veleno per la convivenza civile
• – Enrico Lombardi
Nessuno parla più di lotta di classe, ma non è mai finita e sono i ricchi che la stanno vincendo
Partiamo dal Ticino, dove alcune aziende (Plastifil, Ligo Electric e Cebi, si veda La Regione dell’8 settembre) starebbero imponendo ai propri dipendenti un Contratto collettivo di lavoro (CCL) con salario minimo inferiore a quello fissato dalla legge d’applicazione dell’iniziativa popolare “Salviamo il lavoro in Ticino”, accettata dal popolo nel 2015. La contrapposizione fra lavoro e capitale non potrebbe essere più evidente, con i lavoratori in posizione di chiaro svantaggio perché sotto minaccia tangibile di licenziamento. Questo per l’esistenza di quello che Karl Marx chiamava Esercito industriale di riserva, ovvero una massa di lavoratori disoccupati o sottoccupati pronti ad accettare condizioni di lavoro peggiori di quelle attualmente in vigore, e che spingono gli attuali impiegati ad accettarle ugualmente, per non perdere il posto. A quanto pare nemmeno l’autorità dello Stato è in grado d’impedire questa forma di ricatto. Vien da chiedersi, inoltre, se lo Stato – nella fattispecie il Gran Consiglio – avesse l’intenzione di applicare efficacemente l’iniziativa in questione. Tralasciando gli infimi importi fissati come salario minimo e la discutibile applicazione a scaglioni, suscita parecchi dubbi la clausola legata ai CCL: una scappatoia tanto facile da attuare da non sembrare vera. I quesiti aumentano venendo a sapere del coinvolgimento di TiSin, organizzazione (pseudo)sindacale che ha chiari legami con la Lega dei Ticinesi, il partito di maggioranza relativa in Governo e forza politica di primo piano ad ogni livello istituzionale del cantone. Una risposta, parziale quanto significativa, è che lo Stato non è un agente contrapposto al libero mercato – come pretendono gli ideologi liberisti – ma piuttosto un supporto ad esso, soprattutto se a prendere le decisioni sono delle maggioranze borghesi. E allora la lotta di classe si trasferisce in parlamento e chi la vince lo fa ottenendo che tutto cambi (salario minimo) senza che nulla cambi (scappatoia dei CCL).
Il salario è solo uno dei problemi, a cui se ne aggiungono altri, che si rinforzano a vicenda e danno vita a quel dilagante fenomeno chiamato precariato. L’impatto di quest’ultimo va ben oltre il tempo e il luogo di lavoro. La crescente flessibilità richiesta (o imposta) ai lavoratori implica, da un lato, l’impossibilità di avere i necessari tempi di svago e recupero, sia perché si lavora troppo, sia perché si deve essere disponibili anche nel tempo libero (come nei contratti su chiamata), sia perché le pause sono previste in modo da non permettere mai veramente di staccare (negli orari spezzati ad esempio). D’altro lato c’è chi a causa di questa flessibilità non riesce ad accumulare abbastanza ore di lavoro da ottenere una remunerazione sufficiente per mantenere sé stesso e la sua famiglia, trovandosi ugualmente in una condizione di perenne malessere. Gli effetti sono molteplici e si declinano in modo differente a seconda della situazione particolare. Ciò che è comunque generalizzabile è il nesso fra flessibilità, precarizzazione e calo della qualità di vita.
Inoltre, il precariato ha un legame stretto con le condizioni materiali del lavoro. La situazione di continua minaccia di licenziamento – a causa di delocalizzazioni verso l’est Europa o il sud-est asiatico – è causa sia di malessere psico-fisico sia di una forte pressione al ribasso dei salari. In Ticino va aggiunta la componente del frontalierato, che pone questa minaccia anche senza bisogno di delocalizzare la produzione. I frontalieri allargano a dismisura il suddetto esercito industriale di riserva, per di più con persone pronte ad accettare salari di livello molto inferiore agli standard svizzeri. La possibilità di assumere lavoratori frontalieri – che per inciso si trovano nella stessa situazione precaria o disoccupazionale dei loro dirimpettai residenti in Ticino – è uno strumento irresistibile nelle mani di chi dirige un’azienda e vuole assolutamente ridurre i suoi costi di produzione. Il risultato è un dilagante dumping salariale. Proprio quello che il salario minimo dovrebbe cercare di contenere, ben inteso se applicato correttamente, senza scappatoie. Con l’obiettivo magari di ridurre il tasso di rischio di povertà più elevato della Svizzera, che si attestava per il Ticino, secondo l’Ufficio federale di statistica (UFS), sopra il 24 per cento (fra i soli lavoratori occupati) nel 2019, cioè prima della pandemia.
E se nella ricca Svizzera le cose stanno così, altrove vanno peggio. Le già citate delocalizzazioni di attività produttive, che comportano il licenziamento di lavoratori occidentali, spesso non sono un grande miglioramento nelle condizioni di vita nemmeno per i lavoratori che vengono impiegati al loro posto in paesi in via di sviluppo. Qualche anno fa aveva fatto notizia (presto dimenticata a dire il vero) la serie di suicidi nelle fabbriche FoxConn, un’azienda attiva nel sud-est asiatico, soprattutto in Cina, che si occupa perlopiù di assemblaggio di componenti. In parole povere nelle fabbriche della FoxConn si montano i diversi pezzi che compongono, ad esempio, smart-phone, computer e tablet, che poi finiscono nelle nostre case. Gli impiegati della FoxConn sono sottoposti a condizioni di lavoro inimmaginabili: rinchiusi in dormitori separati dal resto del mondo, compresi gli affetti più cari; con turni di lavoro alla catena di montaggio di ben oltre le 10 ore filate e pause esigue; impossibilitati ad avere attività di svago degne di questo nome; e l’elenco potrebbe continuare. La conseguenza è stata una serie di suicidi, a cui l’azienda – che lavora per società come Apple, Samsung e via di seguito – ha cercato di porre rimedio mettendo spranghe alle finestre dei dormitori. Insomma, prima i profitti, poi la salute dei lavoratori, addirittura arrivando al limite estremo di portarli al suicidio per disperazione e di doverli imprigionare per (provare a) evitarlo.
Per non parlare degli effetti del cambiamento climatico, della pandemia da Covid-19 e delle guerre in medio oriente e altrove, di cui stanno facendo le spese soprattutto i più poveri e vulnerabili. Secondo la Banca Mondiale la pandemia di farà aumentare per la prima volta dal 1990 il numero di persone sotto la soglia di povertà estrema. In realtà dal 2015 si era già assistito a un rallentamento della diminuzione di questa cifra. Inoltre non c’è solo la povertà estrema, ma esistono diversi livelli di povertà, se non altrettanto gravi, comunque insostenibili per chi li subisce. In quest’ottica non sorprendono i consistenti flussi migratori, che non si arresteranno sicuramente grazie agli scellerati e disumani accordi con Erdogan, le autorità libiche o magari, in un prossimo futuro, Hassan Akhund in rappresentanza del regime talebano.
La lotta di classe esiste, anzi è più evidente che mai, sia localmente sia sul piano globale. Il problema sta nel livello di squilibrio e di consapevolezza fra i contendenti. Citando Warren Buffet, imprenditore e finanziere che da questa situazione ha sicuramente tratto immensi guadagni, ma che ha perlomeno l’onestà di ammetterlo: “la lotta di classe esiste, certo, ma è la mia classe, quella dei ricchi, che sta portando avanti questa guerra e la sta vincendo”.
Maurizio Solari è assistente presso la facoltà di economia dell’Università di Friborgo
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