“Me duele respirar”
Dall’insurrezione guerrilliera di Ortega sono passati oltre 40 anni, e per il Nicaragua come per tutta l’America Latina, il tempo sembra riavvolgersi su sé stesso riproponendo inquietanti scenari
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Dall’insurrezione guerrilliera di Ortega sono passati oltre 40 anni, e per il Nicaragua come per tutta l’America Latina, il tempo sembra riavvolgersi su sé stesso riproponendo inquietanti scenari
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Dall’insurrezione guerrilliera di Ortega sono passati oltre 40 anni, e per il Nicaragua come per tutta l’America Latina, il tempo sembra riavvolgersi su sé stesso riproponendo inquietanti scenari
Colpito alla gola da un franco tiratore, Alvarito, come testimonia un tragico video con quel suo estremo lamento, fu portato invano in un ospedale della capitale dove il regime aveva già disposto il divieto di qualsiasi soccorso ai manifestanti. Morì di emorragia interna.
Nell’arco di quei tre/quattro mesi di mobilitazione generale furono oltre 350 le vittime “certificate” (per la gran parte giovani) dagli organismi per i diritti umani, Onu in testa. Senza contare le migliaia di feriti, gli incarcerati e coloro che furono costretti alla clandestinità per poi abbandonare il paese.
E certamente duele respirar questo 19 luglio rievocando l’insurrezione popolare del 1979 che pose fine alla dinastia dei Somoza. Fra i cui artefici ci fu l’allora comandante guerrillero Daniel Ortega. Proprio lui che cinque anni fa, nella sua infausta seconda stagione da presidente, ha represso nel sangue (noi eravamo lì) quella sollevazione dei “nipoti” del General de Hombres Libres, Augusto C. Sandino. Tanto che oggi si parla di orteguismo, come ieri ci si riferiva al somocismo. Con il termine sandinista ridotto a sigla di quel Frente (Fsln) di cui Ortega è da sempre il segretario.
Già qualche anno dopo la debacle elettorale della rivoluzione del febbraio del ‘90 avevamo documentato sul posto il crescente delirio di potere di Ortega. Che emarginò la gran parte della dirigenza sandinista che avrebbe voluto invece consolidare quella democrazia intrinsecamente espressa dalla sconfitta alle urne. Strinse così un folle patto con l’oligarchia locale. Fino a reimporsi elettoralmente alla guida del paese nel 2007.
Di lì in avanti è stato un dilagare del clan danielista, sotto la regia della vice e moglie di Ortega, Rosario Murillo. Che si è proclamato cristiano, socialista e antimperialista. Salvo ratificare da subito il trattato di libero commercio fra i paesi dell’istmo centroamericano e gli Stati Uniti (Cafta); ancora oggi in funzione, tanto che il Nicaragua mantiene oltre la metà del totale dei propri scambi commerciali con gli States. Che a loro volta si sono “limitati” fino ad ora (come l’Ue) a sanzioni ad personam a familiari ed esponenti della dittatura. Niente a che vedere dunque con il feroce ultrasessantennale embargo Usa contro Cuba, che pur ridotta alla fame resiste. E dove, a sole 90 miglia dalle coste del “gigante del norte”, sarebbe stato difficile coniugare la sovranità nazionale con l’esercizio di quella democrazia da noi soli sperimentata (e assai oggi manipolata) nel benestante emisfero nord/occidentale. O con i sistematici boicottaggi di Washington all’economia venezuelana (attenuatisi da poco solo per la crisi mondiale degli approvvigionamenti petroliferi) con Nicolás Maduro che, orfano di Hugo Chavez e nonostante la disastrosa situazione del suo paese, mantiene una pur se assai conflittiva interlocuzione con l’opposizione. Cuba, Venezuela e Nicaragua, tutti e tre ubicati nella Cuenca del Caribe, storico “cortile di casa” degli Usa con piscina annessa. Ma con Ortega da neoligarca a tenere il piede in più scarpe, riducendo strumentalmente i ribelli della spontanea “primavera” del 2018 a mano d’opera di un presunto golpe ordito dalla Casa Bianca.
Duele dunque respirar pensando alla deriva tirannica di questi ultimi anni che ha visto l’incarceramento della mitica comandante Dora Maria Tellez (spedita ora all’estero, libera ma “denazionalizzata”, insieme ad altri 222 prigionieri politici di varie tendenze). Mentre rattrista ancor più ricordare la morte in carcere, lo scorso anno, del generale sandinista Hugo Torres, alla cui ardita operazione guerrigliera del 1974 Daniel Ortega dovette la sua liberazione da un carcere somozista.
Costa oltremodo farsi una ragione che la rivoluzione che più aspettative aveva generato nelle generazioni del (e post) ’68 abbia avuto a posteriori un simile epilogo. Con gli Stati Uniti che fecero di tutto allora (salvo invadere) per contrastarla, nel timore che proprio per la sua apertura e pluralità potesse contaminare l’intero subcontinente latinoamericano. Mentre oggi quasi “lasciano fare” di fronte a un piccolo paese ai loro occhi divenuto insignificante. Con Ortega che nell’ultimo sondaggio della Cid Gallup è dato sotto il 15% dei consensi, grazie a quei nicaraguensi che beneficiano del regime; che stavolta hanno celebrato el triunfo in questo 19 luglio in una piazza minore della capitale.
Sul piano internazionale poi l’ (auto) isolamento del Nicaragua è sconcertante. Basti pensare che è stato l’unico governo latinoamericano a non aver sottoscritto martedì scorso a Bruxelles l’accordo conclusivo del vertice con l’Unione Europea. Con Cuba e Venezuela a lasciarlo solo nel non voler siglare una generica condanna dell’invasione russa in Ucraina.
Ma per chi nutrisse ancora qualche dubbio su questa desolante deriva sarebbe sufficiente menzionare la decisione di qualche giorno fa del presidente Daniel Ortega di estendere la recente nomina di Maurizio Gelli (figlio del “venerabile”) da ambasciatore del governo del Nicaragua in Spagna anche alla Repubblica di Andorra. Come a chiudere un cerchio “storico/geografico” che vide il banchiere Roberto Calvi, fratello massone nell’inquietante Loggia di Andorra del faccendiere nicaraguense-italiano Alvaro Robelo (la cui figlia Monica è ambasciatrice in Italia) aprire a Managua nel 1977, sotto gli auspici del dittatore Anastasio Somoza jr, la succursale nicaraguense del Banco Ambrosiano. Senza tralasciare naturalmente che a sua volta il figlio di Maurizio Gelli, che porta lo stesso nome del nonno Licio, è dall’estate scorsa incredibilmente ambasciatore “nicaraguense” in Uruguay. Eh sì, caro Alvarito, duele respirar…
Articolo scritto per “il manifesto”
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