Myanmar, la crisi dimenticata
Due anni dopo il colpo di stato si moltiplicano gli appelli per un'azione globale capace di fermare l'assalto ai diritti umani da parte dei militari birmani.
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Due anni dopo il colpo di stato si moltiplicano gli appelli per un'azione globale capace di fermare l'assalto ai diritti umani da parte dei militari birmani.
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Due anni dopo il colpo di stato si moltiplicano gli appelli per un'azione globale capace di fermare l'assalto ai diritti umani da parte dei militari birmani.
Non se ne parla quasi più, ma l’esercito birmano continua ad arrestare, torturare ed uccidere arbitrariamente i suoi cittadini, senza impunità. Due anni dopo aver lanciato un colpo di stato, che ha rovesciato l’allora nascente governo civile, facendo precipitare il paese in un nuovo periodo di violenza e povertà, attivisti e difensori dei diritti umani lanciano l’allarme, mentre la popolazione soffre e resiste.
Oggi, nel giorno di questo triste anniversario, molte testate ricorderanno che quasi 3.000 persone sono state uccise, 1,5 milioni sono state sfollate, più di 13.000 sono detenute in condizioni disumane. La lista continua: quattro persone sono state recentemente giustiziate, mentre almeno 100 sono state condannate a morte. Le gravi violazioni dei diritti umani sono costanti, così come gli attacchi aerei e terrestri contro i civili. Ma se ne parlerà anche domani? O tra una settimana?
Alcuni analisti della regione hanno sottolineato che se l’ex Birmania ricevesse soltanto una frazione dell’attenzione rivolta all’Ucraina, se l’esercito di opposizione ricevesse anche un centesimo degli aiuti finanziari devoluti al governo di Zelensky, ci sarebbe speranza.
L’opposizione al regime militare continua nel Paese. La resistenza è composta dal governo di unità nazionale, istituito dai politici eletti nel 2020, ma rimossi dai militari, e da migliaia di giovani, che dopo aver protestato pacificamente per settimane nelle strade di Yangon, hanno deciso di arruolarsi nell’esercito in difesa del popolo. Anche loro avrebbero bisogno di sostegno, di addestramento, di munizioni.
Con gli sforzi internazionali focalizzati nel conflitto in Europa, l’esercito militare birmano porta avanti la sua brutale campagna quasi indisturbato. Sembra improbabile che l’inadeguata risposta globale, possa cambiare in tempi brevi. Ci hanno provato invano i membri di Asean, l’associazione dei paesi del sud-est asiatico, di cui il Myanmar fa parte. E’ fallito infatti il piano in cinque punti, con cui volevano costringere il Generale Min Aung Hlaing a porre fine alla violenza e creare le condizioni per il dialogo e non si intravedono altre iniziative in quel senso. Al contrario ha sollevato stupore e rabbia la notizia di ieri, secondo cui l’esercito del Myanmar è stato invitato a partecipare ad un incontro militare regionale copresieduto da Thailandia e Stati Uniti. Una vittoria per il capo dell’esercito in cerca di legittimità?
Per esperti e attivisti, la comunità internazionale dovrebbe impegnarsi maggiormente per fermare il flusso di armi nel paese e sanzionare il settore petrolifero e del gas del paese, con cui i militari continuano ad arricchirsi. Lo si dice da mesi, di nuovo, senza risultati.
Certo, ci sono differenze con il conflitto in Ucraina, ma è impossibile non notare la mobilitazione della comunità internazionale in un caso e l’indifferenza nell’altro. La lontananza geografica e culturale con il Myanmar sono forse dei fattori, così come la mancanza di una figura carismatica, che mantenga l’interesse dei media nel paese asiatico. Una volta era Aung San Suu Kyi a farlo, a dominare le pagine dei giornali occidentali con il suo carisma e la sua lotta per la democrazia. Ma non solo la Premio Nobel per la pace ha perso il suo lustro durante la crisi dei Rohingya, ora, condannata dal regime a più di 33 anni di carcere, non avrà più un ruolo nella politica. Questo era del resto l’obiettivo dei militari: metterla fuori gioco con processi-farsa, così che fosse più facile spegnere i riflettori su di lei e sul Myanmar.
Veglie, preghiere, cortei pacifici. Si attendono oggi manifestazioni di solidarietà per un Paese che ha bisogno di sapere di non essere stato dimenticato. Il vero aiuto però non arriverà oggi e probabilmente nemmeno domani.
Nell’immagine: manifestazione a Yangon nel 2021
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