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Di Matteo Fabbri, Linkiesta

Il presidente serbo Vučić, che ha incontrato Putin diciannove volte in sette anni, ora critica il Cremlino per il reclutamento della Wagner nel suo Paese e valuta sanzioni. Il premier è consapevole che quella dell’Ue è l’unica strada percorribile.

Uno degli edifici più belli di Belgrado dal punto di vista architettonico è l’hotel Moskva [nell’immagine], uno storico albergo in stile art nouveau che potrebbe essere il set perfetto per un film di Wes Anderson. L’hotel, controllato per lungo tempo dallo Stato e sotto protezione governativa dal 1968, è ormai da qualche mese un punto di riferimento per i tanti russi arrivati nel Paese. La Serbia, infatti, è uno dei pochi Paesi che non ha adottato le sanzioni nei confronti di Putin e che ha quindi mantenuto voli diretti con Mosca e San Pietroburgo.

Dopo l’invasione russa in Ucraina il presidente Aleksandar Vučić ha avuto un atteggiamento ondivago, condannando timidamente la guerra voluta dal Vladimir Putin senza però mai attuare misure concrete. Una strategia figlia di un rapporto solido tra due Paesi i cui leader si sono incontrati ben diciannove volte in sette anni. Un’amicizia certificata anche in occasione degli auguri di fine anno, quando il capo del Cremlino ha invitato il suo omologo a rafforzare il partenariato strategico. Negli ultimi giorni, più per convenienza che per altro, qualcosa sembra però essere cambiato.

Il motivo di questa correzione di rotta è da ricercarsi nella bozza di accordo «franco-tedesco», non ancora pubblico, citato dal presidente Vučić nel suo discorso al Paese all’inizio di questa settimana. Stando alle indiscrezioni sull’accordo – che arriva dopo un lungo lavoro diplomatico di Ue, Stati Uniti, Germania, Francia e Italia – Belgrado si impegnerebbe a non ostacolare più il processo di inserimento del Kosovo in alcuni organismi internazionali (in primis le Nazioni Unite) ottenendo in cambio un’accelerazione nel percorso di integrazione europea.

Ma dovrebbe esserci dell’altro: la chiave di volta per convincere Vučić potrebbe essere l’istituzione di un’associazione di Comuni kosovari a maggioranza serba, con il fine di tutelare la popolazione originaria della Serbia che vive all’interno dei confini del Kosovo. Pristina dovrebbe garantire inoltre la sicurezza di chiese e monasteri secolari che Belgrado considera monumenti cruciali per la sua religione e storia.

Vučić ha accolto con scarso entusiasmo la soluzione franco-tedesca, ma si è anche detto consapevole che quella dell’Ue è l’unica strada percorribile. Giocando un po’ il ruolo della vittima, il presidente ha fatto passare la proposta come una sorta di ricatto sottolineando il rischio di un isolamento internazionale in caso di mancato accordo. Nonostante questo, le parole del leader serbo hanno un peso specifico importante se si considera che non più di qualche settimana fa la tensione con il Kosovo era altissima. Il piano verrà esaminato e discusso con il Parlamento entro i prossimi dieci giorni.

Nel discorso di Vučić non sono mancate timide critiche al Cremlino e, soprattutto, al gruppo Wagner colpevole di aver diffuso un video di «reclutamento» in cui volontari serbi si addestrano insieme ai mercenari che combattono per Mosca (tradizionalmente molto vicini ai gruppi di estrema destra dei Balcani). In settimana si sono poi aggiunte le dichiarazioni del Ministro degli Esteri Ivica Dačić che ha lasciato intendere un cambio di rotta da parte di Belgrado anche sulle sanzioni alla Russia.

Il ragionamento di Dačić, nell’intervista rilasciata a Euractiv, in effetti è semplice: «Se qualcosa cambia a scapito degli interessi della Serbia, allora la nostra decisione sarà adattata di conseguenza perché valuteremo in ogni momento qual è la decisione migliore per la nostra economia, per la nostra posizione nel mondo e per i cittadini della Serbia». Si può immaginare che dalle parti del Cremlino non abbiano fatto salti di gioia.

Il ministro degli Esteri ha poi spiegato che Belgrado non ha mai aderito alle sanzioni occidentali che colpiscono Mosca perché non era conveniente per il suo Paese. Ed è facile desumerne i due motivi principali: la Russia ha sempre difeso le posizioni della Serbia all’Onu e Belgrado dipende per quasi il cento per cento del suo approvvigionamento energetico da Mosca. Va però sottolineato che nonostante la mancata applicazione delle sanzioni nei confronti di Putin, alle Nazioni Unite i serbi hanno quasi sempre votato contro la Russia sulle mozioni relative all’invasione dell’Ucraina.

Il cambio di approccio del Governo lascia pensare che oltre ad un’accelerazione nel percorso di ingresso nell’Ue (la richiesta di adesione risale al 2009), Bruxelles e Washington possano aver messo sul piatto importanti investimenti anche dal punto di vista energetico, che diminuiscano gradualmente la dipendenza serba dal gas di Putin.

L’Unione Europea sembra decisa a voler essere finalmente protagonista nei Balcani occidentali segnando un evidente cambio di passo sulle politiche di allargamento nella Regione, ma alle proprie condizioni: stop alle ambiguità sulla Russia e basta ostacoli al percorso di integrazione internazionale del Kosovo. A dire il vero, però, l’Ue farebbe bene a chiarire quest’ultimo principio anche all’interno dei propri confini visto che nemmeno Spagna, Grecia, Cipro, Romania e Slovacchia hanno riconosciuto l’autonomia di Pristina.

Se vorrà concludere l’accordo, Vučić dovrà anche essere bravo a convincere il popolo serbo, la cui voglia di Unione europea è andata via via scemando. I cittadini sono disillusi nei confronti di Bruxelles che per anni ha ritenuto non prioritario il processo di integrazione di Belgrado. Una strategia che ha lasciato campo libero al Cremlino che, oltre a condividere con la Serbia la cultura ortodossa, ha continuato ad inviare nel Paese risorse energetiche ed economiche. Una percezione in parte distorta visto che Bruxelles è il primo partner commerciale con oltre trenta miliardi di euro di scambi contro i poco più di due miliardi della Russia.

Insomma, come è capitato spesso quando ci sono di mezzo i Balcani, la soluzione non è scontata anche se questa volta sembrano esserci buone probabilità. L’approvazione dell’accordo avrebbe una valenza storica che, oltre a staccare da Putin uno degli ultimi alleati rimasti nel vecchio continente, darebbe avvio un processo di normalizzazione atteso da decenni. Un percorso in cui l’Ue può avere un importante ruolo ed essere garanzia di pace in una regione che, per dirlo con le parole di Winston Churchill, «già nel suo tormentato passato ha prodotto più storia di quanta ne possa digerire».






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