La Fashion Valley ticinese e il timore d’un addio
Le grandi firme se ne vanno. Cosa ne resterà? – Intervista a Spartaco Greppi
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Le grandi firme se ne vanno. Cosa ne resterà? – Intervista a Spartaco Greppi
“Un tempo, figliolo, qui era tutta Fashion Valley”: una rete di colossi della moda che arrivò in Ticino nei primi anni Duemila. Centinaia di imprese, migliaia di posti di lavoro – perlopiù frontalieri – e decine di milioni di gettito fiscale. Negli ultimi anni, però, è iniziato un fuggi fuggi: marchi come Armani e Gucci hanno lasciato Mendrisio, Sant’Antonino, Cadempino e altri comuni, chiudendo i loro centri e cancellando, insieme al lavoro, anche le entrate per le casse pubbliche. Come siamo arrivati fin qui? E come si potrebbe ripartire? Ne parliamo con Spartaco Greppi, economista presso il Dipartimento di economia aziendale, sanità e sociale della Supsi.
In Ticino, tutto sommato, la moda non è solo una moda: è almeno da un secolo che sul territorio, specie a ridosso del confine, si sono insediate fiorenti attività tessili e dell’abbigliamento. Che impronta hanno lasciato?
Fin dall’inizio dello scorso secolo il Ticino forniva condizioni ideali per questo comparto, a partire dalla disponibilità di manodopera a basso costo: frontaliera, certo, ma in un primo tempo anche residente. D’altronde c’era anche chi cuciva in casa, a cottimo. Ma il cantone offriva anche un quadro politico e strutturale integrato in quello svizzero, tale da attrarre gli investimenti delle storiche imprese – si pensi a Calida – che avevano la loro sede a ridosso delle alpi, in cantoni come Lucerna, Glarona e San Gallo. Fu così che da noi si concentrò la produzione, mentre le attività commerciali e dirigenziali rimasero oltre Gottardo. Certo, una certa esperienza a livello imprenditoriale si è sedimentata anche da noi, ma nelle catene del valore siamo rimasti un anello a basso valore aggiunto.
Negli anni Novanta però, in concomitanza con un’accelerazione della globalizzazione, il settore conobbe una forte crisi, bruciando in pochi anni migliaia di posti di lavoro.
Cos’era successo?
Molte aziende decisero di spostare la produzione in Europa orientale e sudorientale, o ancora in Oriente, in Paesi quali Bangladesh e Vietnam. Certi luoghi di produzione, un tempo penalizzati dalla distanza e da altre variabili di carattere economico e politico, divennero più convenienti del Ticino. Il comparto dovette reinventarsi: fu un percorso arduo e accidentato.
Poi arrivarono i grandi marchi del lusso: Zegna, Armani, Gucci e via dicendo. Come fu possibile?
Credo si sia trattato di un insieme di scelte e di occasioni diverse. L’industria del lusso cercava sedi che fornissero vantaggi non solo in termini di tassi di cambio e differenziali salariali, ma anche di ‘condizioni quadro’. Il Ticino sfruttò l’occasione, puntando proprio sulla stabilità di tali condizioni, e allo stesso tempo introducendo incentivi specifici: trattamenti fiscali privilegiati e particolari agevolazioni nell’accesso alla proprietà e nella conseguente costruzione di sedi.
E di capannoni. La logistica prese il posto della produzione?
In effetti, fu soprattutto la possibilità di sviluppare un perno logistico sul territorio, lungo l’asse nord-sud, che si dimostrò un vantaggio strategico per il cantone, sempre insieme a un costo della manodopera relativamente basso: parliamo non solo di magazzinieri, ma anche di tutti quei lavoratori a contratto, freelance, stagisti spesso utilizzati ad esempio per servizi informatici, marketing e comunicazione, in condizioni assai precarie.
Poi c’era il ‘profit shifting’: la possibilità di spostare la contabilizzazione dei profitti globali di un’impresa qui, beneficiando di accordi fiscali particolarmente vantaggiosi.
Per molte aziende fu decisiva la possibilità di fare quello che vediamo anche in altri Paesi e presso molte multinazionali, si pensi alle grandi piattaforme social o dell’e-commerce: impostare strutture che permettessero di sottoporre a imposizione fiscale in Ticino anche il valore prodotto di fatto altrove, facendo passare da qui la filiera in modo molto cursorio. L’esempio un po’ aneddotico è quello del capannone in cui arrivano i capi, ai quali si attacca semplicemente un’etichetta prima di spedirli altrove.
Una specie di ‘tana libera tutti’ che però ci ha permesso di godere di un immenso gettito fiscale: l’Istituto di ricerche economiche nel 2015 lo stimava a 90 milioni di franchi annui.
La moda portò effettivamente qui un enorme gettito fiscale, ma rimase molto ‘cantieristica’, senza sviluppare qualcosa di più sostenibile e duraturo dal punto di vista delle professioni che richiedono formazioni più elevate e generano maggiore valore aggiunto. Per questo si è anche trattato di un settore un po’ avulso dal tessuto lavorativo e sociale ticinese, quasi ‘invisibile’.
Di visibile, però, ci sono almeno due cose: da una parte le strutture pubbliche – case comunali, scuole, giardinetti – verosimilmente ‘pagati’ da questi grandi contribuenti. Dall’altra, gli sgorbi edilizi e il traffico. Che bilancio possiamo trarne?
Nel breve periodo il beneficio fiscale è stato certamente positivo, e l’arrivo di nuovi attori ha arginato le conseguenze della partenza dei loro predecessori. Dall’altra parte, però, troviamo le esternalità negative: il traffico, l’inquinamento, la cementificazione, dunque un generale deterioramento della qualità della vita. Il tutto per un settore per definizione esclusivo, non solo perché ‘di lusso’, ma anche in termini di impiego: è rimasta fuori dalle loro porte la nostra ‘economia cognitiva’, tutti quei professionisti, spesso giovani, che avrebbero sì potuto mettere a disposizione le loro competenze avanzate, ma non per i salari e nei termini offerti da queste imprese. L’inversione di tendenza di questi anni ci mostra come i vantaggi iniziali si stiano dimostrando aleatori.
In effetti, si direbbe che ora la marea si stia ritirando. Un caso esemplare: ‘braccato’ dal fisco italiano e francese, un gigante come Kering è di fatto tornato in Italia. Ora i milioni di entrate pubbliche a rischio per l’intero ‘metasettore’ potrebbero essere addirittura 200.
Cosa sta succedendo?
C’entra sicuramente il fatto che gli altri Paesi si sono mossi per evitare certe pratiche di ‘ottimizzazione’ fiscale, con leggi, riforme e controlli volti a ricostituire una certa equità. Questo ha cambiato radicalmente il calcolo costi/benefici per le imprese. Segno, tra l’altro, che non possiamo più sperare di rispondere al problema con ulteriori sgravi – cercando di attirare qui l’ennesimo ‘salvatore’ – o puntando sul basso costo del lavoro, come facevamo fino a qualche tempo fa. Nel frattempo è lo stesso settore della moda che – complici anche la pandemia e le crisi di approvvigionamento globali – è stato costretto a ristrutturarsi radicalmente.
Cosa significano queste partenze?
Assistiamo allo svuotamento di capannoni, sedi, infrastrutture che però lì restano, e che si dovrà decidere se e come riutilizzare. È un problema non da poco, che non può essere risolto solo al livello dei singoli comuni, ma richiede un coinvolgimento del Cantone e della sua politica. Peccato che, nel frattempo, si sia deciso di rispondere legandosi le mani con ricette all’insegna dell’austerità, pretendendo di contenere le spese senza alzare le tasse. Proprio nel momento in cui si tratterà di ripensare radicalmente lo sviluppo del tessuto economico di importanti aree del cantone, si rischia di non poter neppure investire a sufficienza per farlo.
Siamo sicuri che nel nostro futuro debba esserci proprio la moda?
Per uno sviluppo armonico occorre guardare a diversi settori, dalla biochimica all’informatica avanzata, ai servizi sanitari e culturali, ridefinendo anche noi le catene del valore come sta avvenendo a Milano e a Zurigo. Questi poli economici non stanno fermi, e anche noi qui nel mezzo dovremmo cercare di attrarre aziende che non contribuiscano alla devastazione del territorio. L’idea dovrebbe essere quella di creare un ecosistema all’altezza per attività economiche capaci di contribuire al benessere locale in senso ampio.
Altrimenti?
Altrimenti si fa come si è fatto finora, anche con i contribuenti privati: si sgravano i più ricchi nella speranza che qualcosa della loro ricchezza ‘sgoccioli’ sul territorio creando ricchezza e lavoro, e che un giorno, chissà, ci tocchi perfino qualche eredità. Ma la correlazione tra sgravi di questo tipo e generazione di ricchezza è privo di dimostrazione empirica. In più si rilancia un’idea di economia che nel lungo periodo finisce per renderci più poveri e più vulnerabili.
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