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Naufragi

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L’improvvisa scomparsa di Raffaella Carrà illumina, una volta per sempre, la sua presenza nel costume dell’Italia degli ultimi 50 anni


Enrico Lombardi
Enrico Lombardi
Quando se ne va un’icona
• 6 Luglio 2021 – Enrico Lombardi
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C’è davvero qualcosa di straordinario nel cogliere, in una notizia triste come quella della scomparsa di Raffaella Carrà, una sorta di “brivido malinconico” che attraversa improvvisamente la storia della cultura, del costume, dello spettacolo italiani nati con il boom economico e lo splendore dei mitici anni ’60.

Proprio nel 1960 Raffaella Pelloni, diciassettenne emiliana doc, ottiene il diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, realizzando il sogno di una ragazza che da bambina, come ebbe a raccontare, aveva avuto una vita non certo facile: “Io sono cresciuta senza un padre. Era danaroso ma troppo playboy e mia madre divorziò nel 1945. Oggi, quando si parla delle adozioni a coppie gay ma anche etero, faccio un pensiero: ‘Ma io con chi sono cresciuta?’ Mi rispondo: con due donne, mia madre e mia nonna. Facciamoli uscire i bambini dagli orfanotrofi, non crescono così male anche se avranno due padri o due madri. Io le ho avute. Sono venuta male?“, raccontò al settimanale Il Venerdì di Repubblica.

Un’infanzia particolare, retrospettivamente rivendicata in modo chiaro e per nulla conformistico nella sua specificità ci può già dire molto di quello che le permetterà poi  di diventare una sorta di “detonatore benefico” dell’abbattimento di molti pregiudizi morali e sessuali dell’Italia di quegli anni.

Dopo gli inizi nel cinema che la portano ad affiancare persino Frank Sinatra nel film “Il colonnello Von Ryan”, nel 1965, è soprattutto con la televisione che, diventata Carrà, ha saputo a poco a poco creare una propria immagine aderente al sentire comune, all’idea di bellezza, leggerezza e di umanità, amata trasversalmente dal pubblico di ogni età, adorata ed imitatissima persino da tanti “artisti” della comunità LGBT.

Un successo, il suo, che diventa travolgente a cominciare dalle prime serate di “ Canzonissima” in cui entra nella storia del costume italiano proprio per il “costume di scena” che si poteva (come infatti è stato) anche moralisticamente denunciare, così tutto focalizzato in quell’ombelico in bella mostra, come non si era mi visto prima in uno spettacolo televisivo; un ombelico che lei stessa definì “a forma di tortellino”, riconducendo dunque la sua “provocazione” alle dimensioni popolane e popolari di rara consapevolezza autoironica, che ne ha fatto un personaggio mai volgare, magari solo un po’ malizioso, dentro quelle sgargianti tutine aderenti mozzafiato a fasciare la figura snella e slanciata di una soubrette diventata presto professionista impareggiabile nel gestire ospiti e pubblico.

Il suo rapporto con il pubblico è sempre stato un rapporto autentico, diretto, costruito su una non comune capacità d’ascolto;  quello di una “diva” che sapeva rispondere alle sollecitazioni e agli ammiccamenti (alla Sordi, in un leggendario “tuca tuca”, per esempio) con la propria inconfondibile risata, che accompagnava con un movimento della testa all’indietro tanto naturale quanto fissato, per sempre, nella memoria collettiva degli spettatori.

E poi, con il pubblico, la Carrà ha avviato un tipo di contatto nuovo dentro un contenitore pomeridiano, “Pronto Raffaella” diretto da Gianni Boncompagni,  che non ha certo preso alla leggera, che non ha certo ritenuto “punitivo”, ma che ha anzi elevato a vero programma di servizio e di svago (si pensi al celebre gioco “Indovina quanti fagioli ci sono nel barattolo di vetro?”), raggiungendo risultati d’ascolto mai visti né mai più raggiunti.

E che dire della tv dell’emozione di “Carramba che sorpresa”? La Carrà inventa un genere, che avrà poi abbastanza rapidamente le sue derive, ma che in mano a lei, alla sua leggerezza e sensibilità non passa mai la misura di una “buona televisione di servizio verso il pubblico”, quella del grande intrattenimento di qualità,  con cui “carrambata” entra di diritto nel vocabolario italiano e in cui la Carrà ha saputo portare un’esperienza unica di chi ha calcato scene e percorso studi televisivi internazionali, negli Stati Uniti così come in Spagna e nel Sudamerica, dove è stata a lungo una primadonna, proprio come in patria.

Una primadonna, un mito, un’icona, eppure, per tutti e prima di tutto una donna capace di emanare un’energia ed una vitalità incredibili, anche quando doveva nascondere tristezze e dolori della vita privata. Con il titolo “Amore”, nel 2006, presenta un programma dedicato alle adozioni a distanza: coinvolgendo il pubblico ottiene il risultato incredibile di aiutare ben 130.000  bambini del Terzo Mondo.

Negli ultimi anni si era “concessa” una presenza come giudice in un dei tanti “talent show” (The Voice of Italy) ma quel tipo di televisione non era (più, o mai stato) il suo. E infatti, la sua ultima fatica televisiva l’ha vista nuovamente in veste di interlocutrice attenta, partecipe, intelligente, nell’incontrare altri personaggi celebri della tv italiana ritratti nel loro privato: nella serie “A raccontare comincia tu”, ha offerto con tutta la sua umana empatia, una serie di incontri originali con Renato Zero, Sofia Loren, Riccardo Muti, Luciana Littizzetto, Paolo Sorrentino (ah, “La grande bellezza” da premio Oscar con quel tormentone “A far l’amore comincia tu” che era stata, appunto, una delle sue canzoni più note e provocatorie).

Per cercare di capire fino in fondo le ragioni di tanto successo, verrebbe la tentazione di evocare, solo per un momento, il celebre saggio di Umberto Eco intitolato “Fenomenologia di Mike Bongiorno” (1961), il primo esempio di raffinata critica televisiva in cui il noto semiologo e scrittore osserva come il successo del presentatore consista nella sua “mediocrità” o, meno brutalmente, “medietà” che non fa sentire inferiore a lui nessuno spettatore, e verrebbe da chiedersi se vi possa anche essere una possibile “fenomenologia di Raffaella Carrà”.

Certo sarebbe ben diversa e in realtà vi si è esplicitamente misurato, in una sorta di strano esperimento-istallazione, l’artista Francesco Vezzoli, proponendo alla Fondazione Prada nel 2017 una rassegna dei celebri programmi della Carrà raccontati come fossero cartine di tornasole delle trasformazioni in atto in Italia, fra gli anni ‘70 e ’80, nell’ambito dei comportamenti sociali, della sessualità e della moralità.

È vero, la discografia di Raffaella Carrà è punteggiata da tormentoni di successo piuttosto banali, con velati accenti pruriginosi, eseguiti con danze sinuose e presi molto sul serio, con tanto di pubbliche reprimende, dall’Italia cattolica e bacchettona di allora: si pensi solo a “Com’è bello far l’amore da Trieste in giù”.

Nell’immagine: Raffaella Carrà intervistata dalla TSI in veste di attrice






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