Nel regno del terrore le ragazze escluse anche dalle università
Bersaglio continuo il mondo femminile e il corpo delle donne. Porte degli atenei chiuse alle studentesse, ultimo passo della fanatica regressione imposta dai Talebani
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Bersaglio continuo il mondo femminile e il corpo delle donne. Porte degli atenei chiuse alle studentesse, ultimo passo della fanatica regressione imposta dai Talebani
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Bersaglio continuo il mondo femminile e il corpo delle donne. Porte degli atenei chiuse alle studentesse, ultimo passo della fanatica regressione imposta dai Talebani
L’indignazione, almeno quella, anche se a corrente alternata, si spera rimanga. Ma ad un certo punto vengono meno persino le parole necessarie a denunciare e condannare la terribile condizione delle donne afghane. Sempre più trascinate, da un regime criminale e più che oscurantista, nel cerchio infernale di una sottomissione violenta, assoluta, apparentemente senza scampo.
Quello dei Talebani è un enorme e nero echinoide: cammina all’indietro, come un malefico gambero procede a ritroso verso il peggio, travolge con virulenza libertà, dignità, diritti anche minimi. Sempre e soprattutto contro un universo femminile, già oggetto di ataviche negazioni tribali e famigliari, e che ora deve addirittura sparire dalla vista: dietro umilianti maschere, dentro scafandri di panno nero, avvolto nei burqa con cui si vuole annichilire visi e corpi e movenze ‘tentatrici’ per il genere maschile-patriarcale che invece le deve dominare, naturalmente in nome di una religione usata come il maglio di una feroce dittatura.
Per chi ricorda quelle angoscianti immagini cinematografiche, un interminabile “Viaggio a Kandahar”.
Sparire anche dai banchi di scuola, accessibile alle bambine ma solo per una manciata di anni, poi stop. Impedire alle ragazze di crescere istruendosi è ritenuto pericoloso quanto il loro corpo, lo sguardo, il sorriso: che per gli “studenti coranici” sono anche peggio della musica in piazza, nei cortili, nelle case.
C’era un’anomalia, in questo deserto culturale. Ragazze che avendo già frequentato le scuole superiori prima della presa di Kabul, e dei provvedimenti restrittivi, potevano ancora cercare di andare all’università, pubblica o privata, anche se limitate a talune facoltà: assolutamente esclusa l’iscrizione a ingegneria, economia, veterinaria, agricoltura, e ci si può chiedere quali pericolosissime minacce alla ‘morale islamica’ rappresentassero, nelle bacate teste talebane, l’approfondimento di quelle materie. Ora basta, nemmeno quello che rimaneva parzialmente possibile, anche se in classi rigidamente separate, giovanotti da una parte e dall’altra ragazze comunque con insegnanti donne o docenti molto anziani; ora il ministro dell’Istruzione Neda Nadeem ha decretato la proibizione, in tutti gli atenei, di continuare l’istruzione femminile. Tutte a casa, ‘per un periodo transitorio’.
Ma si sa, la transitorietà talebana può essere infinita, e del resto la stessa garanzia era stata fornita anche dopo aver chiuso alle giovani le porte delle scuole superiori: che chiuse sono rimaste, dal marzo scorso. Sbagliando, c’erano stati (anche chi scrive) coloro che avevano sperato che dopo vent’anni, quelli dell’intervento militare americano-occidentale, nella nuova generazione talebana formatasi in Pakistan e in Iran, tra computer e pur minimi spazi di modernità, sarebbero rientrati giovani combattenti più istruiti, meno rozzi, meno disposti a seguire ciecamente leader fanaticamente inchiodati al passato, giovani più consapevoli (anche per semplice interesse e pura tattica politica) di quanti danni all’economia e all’immagine internazionale del paese avrebbe provocato un richiudersi nel regno del terrore; magari meno ostili agli accordi di Doha, subito sfumati, e con i quali gli Stati Uniti di Trump credevano di aver strappato agli imam-guerrieri qualche garanzia di apertura sul rispetto dei diritti umani. Niente, assolutamente nulla. Un’illusione
Nemmeno li ha smossi dalla barbarie la certezza che “l’echinoide della loro regressione” avrebbe reso più difficile, e anche pretestuosa, la decisione occidentale di fornire soltanto col contagocce l’aiuto umanitario indispensabile a un paese ridotto a fame, miseria, gelo, disoccupazione senza limiti, milioni di essere umani sfiniti. Uso ideologico e inaccettabile del soccorso umanitario da parte di Stati che hanno pur avuto le loro responsabilità nell’impazzito formicaio afghano.
Anche qui le donne (che nell’ultimo e nelle città avevano potuto istruirsi) hanno dimostrato inaudito coraggio, sulle piazze e a volto scoperto hanno cercato di piegare la volontà repressiva dell’oligarchia religiosa, hanno manifestato la loro delusione e la loro rabbia. Come quelle del vicino Iran. Dove, al contrario che a Kabul, le tante Mahsa Amini sono però riuscite, sul proscenio di un dramma dagli esiti ancora incertissimi, a coinvolgere nella loro protesta ampi settori della società, e compagni e operai e minoranze etniche.
Sembra difficile, molto più difficile, che ciò possa avvenire anche nell’inferno talebano: frutto di troppe guerre, erede di una tragedia che dura da oltre quarant’anni, alimentata anche dai calcoli di fameliche potenze regionali. E dall’indifferenza della comunità internazionale. C’è l’Ucraina, e tanto basta.
Davvero, a volte mancano le parole.
Nell’immagine: un fotogramma da “Viaggio a Kandahar“, di Mohsen Makhmalbaf (2001)
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