Nell’aria non c’è solo l’amore…
Il virus si trasmette soprattutto via aerosol ed è da quello che dovremmo proteggerci, cambiando radicalmente approccio
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Il virus si trasmette soprattutto via aerosol ed è da quello che dovremmo proteggerci, cambiando radicalmente approccio
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Il virus si trasmette soprattutto via aerosol ed è da quello che dovremmo proteggerci, cambiando radicalmente approccio
“Love is in the air” diceva una vecchia canzone. Ma nell’aria non c’è solo l’amore, e nemmeno solo la primavera, come auspicava settimana scorsa il presidente della Conferenza delle direttrici e dei direttori cantonali della sanità, ricordando che temperature più miti aiutano a contenere i contagi.
Nell’aria c’è anche il SARS-Cov-2, il virus che provoca la CoViD19. Non è ormai più un’ipotesi: il consenso scientifico sul ruolo dei cosiddetti aerosol nella trasmissione del virus è sempre più ampio. Già la scorsa estate, Nature aveva evidenziato che si trattava di un ipotesi sempre più solida ma agli inizi di febbraio ha addirittura pubblicato un editoriale intitolato appunto “Coronavirus is in the air”.
“A un anno dall’inizio della pandemia – scrive la prestigiosa rivista scientifica – le prove sono ormai evidenti. Il coronavirus SARS-Cov-2 si trasmette soprattutto attraverso l’aria, da persone che respirando e parlando emettono goccioline più grandi e particelle più piccole che si chiamano aerosol”.
Per questo, sottolinea l’editoriale di Nature, le autorità sanitarie dovrebbero smettere di focalizzarsi sulla disinfezione delle superfici e concentrarsi piuttosto sulla ventilazione e sul filtraggio dell’aria.
È un messaggio che l’Ufficio federale della salute pubblica non ha ancora recepito, anche se da qualche settimana raccomanda anche di ventilare i locali chiusi. E questo ovviamente non aiuta la popolazione a proteggersi adeguatamente.
Se il virus si trasmette per via aerea, il rischio si concentra soprattutto nei luoghi chiusi, dove il ricambio d’aria è limitato. E aumenta a dipendenza dell’attività svolta: respirando gli aerosol sono pochi, ma aumentano quando si parla, si grida, si canta, si respira affannosamente.
Restano importanti le mascherine, ma i plexiglas – moltiplicatisi dopo la prima ondata – servono a poco o nulla perché fermano le goccioline, non il virus nell’aria. Quanto al famoso metro e mezzo di distanza, non è quella garanzia che le autorità sanitarie ci hanno indotto a credere (con fragilissime basi scientifiche, come spiega questo articolo del British Medical Journal)
I protocolli di sicurezza andrebbero perciò radicalmente rivisti per tutti gli spazi chiusi: uffici, posti di lavoro, ancor prima che negozi, bar e ristoranti. Compreso l’assurdo rito in vigore nelle conferenze stampa, per cui chi parla (e quindi emette più aerosol) toglie la mascherina per rimetterla quando ha finito.
Di buono c’è che all’esterno i rischi sono molto inferiori: lì sì che mantenere le distanze mette al riparo dai contagi, perché il ricambio d’aria è garantito. Parchi, lungolaghi, spiagge e aggiungerei anche le terrazze di bar e ristoranti non presentano rischi particolarmente elevati e possono quindi offrirci quella valvola di sfogo di cui tutti abbiamo bisogno.
E questa sarebbe un’altra buona ragione perché le nostre autorità sanitarie si dimostrassero meno conservatrici e dessero retta alla scienza.
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