Neutrale sarai tu
Perché la neutralità ‘non è tacere nelle quattro lingue nazionali’
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Perché la neutralità ‘non è tacere nelle quattro lingue nazionali’
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• – Sergio Roic
• – Franco Cavani
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In un’Università milanese si è già deciso cosa significa “sanzionare” la Russia
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• – Redazione
Perché la neutralità ‘non è tacere nelle quattro lingue nazionali’
A leggere la stampa estera di martedì mattina, insolitamente allineata ai comunicati stampa dell’UDC nazionale e ai meno composti sfoghi del «Mattino», sembrerebbe di essere stati improvvisamente catapultati indietro nel tempo fin sulle soglie di Marignano (1515), quando i fanti confederati scorrazzavano a destra e a manca portando le loro terribili picche al servizio di questo o quel fronte bellico in tutte le lande d’Europa (in fondo era sufficiente pagarli). Poi uno sfoglia per fortuna anche l’ottima ricostruzione di John Robbiani sul «Corriere del Ticino», e magari ascolta con la dovuta attenzione il reportage di Alan Crameri al Radiogiornale RSI, e inizia pian piano a mettere assieme i pezzi di un ritorno al futuro. Potere del giornalismo onesto ed equilibrato, quello che richiede tempo, energie e sano spirito critico per essere esercitato al meglio, con buona pace di chi vuole togliere quasi tutti i soldi al servizio pubblico.
Che la neutralità svizzera sia da sempre un tema a fior di pelle non sorprende forse più nessuno. Stupiscono invece i toni drammatici con i quali si parla oggi di «punto di non ritorno» e di «tradimento della nostra storia secolare» dopo la decisione del Consiglio federale di adeguarsi alle sanzioni economiche contro la Russia promosse dall’Unione Europea. Si tratta di una decisione storica? Certamente, così come sono state “storiche” tutte le espressioni della neutralità svizzera, specie quelle degli ultimi decenni. Considerando retrospettivamente le cose, più che una rigida camicia inamidata – come non pensare ai ridicoli arbitri incravattati della boxe? – la neutralità è stata sovente per la Confederazione un abito da indossare con consapevolezza e cura, con un occhio di riguardo alla “meteo” internazionale per vedere fuori che aria tirava… Un delicato quanto elastico esercizio di equilibrismo, insomma, più che una formula data una volta e per sempre. Dovessi definirla – ma non mi ci proverò – applicherei le categorie della giurisprudenza più che quelle della legislazione: è la storia dell’uso della neutralità a determinarne la sua vera natura, non tanto (e non solo) quello che c’è scritto sulla carta.
L’immaginario collettivo identifica l’inizio di tutto nella débacle della Battaglia dei Giganti, nel piccolo comune lombardo che oggi si chiama Melegnano, quando l’espansionismo confederato subì la più dura e duratura battuta d’arresto. Milano divenne per sempre off limits e ci si dovette accontentare dei baliaggi italofoni (è l’inizio della nostra storia regionale). Giuridicamente parlando la neutralità della Confederazione venne sancita però soltanto nel 1674, con decisione della Dieta federale, e che si trattasse comunque di un soluzione ibrida e non assoluta è nozione pacifica a chi consideri il fatto che il servizio mercenario (gli attuali «foreign fighters») fu messo al bando soltanto nel 1859, ben oltre il riconoscimento della «neutralità perpetua» sancita dal Congresso di Vienna nel 1815.
Anche dal punto di vista dell’adesione a sanzioni economiche, cioè l’attuale oggetto del contendere, chi voglia dedicare qualche minuto alla nostra storia troverà oscillazioni notevoli: la Dichiarazione di Londra del 1920 dispensava la Svizzera dalle sanzioni militari verso terzi ma non da quelle finanziarie, nel 1938 si ripristinò invece la «neutralità integrale» (e non mancarono, ahimè, lucrosi affari con la Germania nazista), poi di nuovo un ritorno a una discrezionalità più allineata alle decisioni dell’ONU o della NATO in occasione di grandi fatti tragici come quelli di Ungheria (1956) e Cecoslovacchia (1968), anche perché esisteva un accordo segreto con gli Stati Uniti in funzione anticomunista, almeno dal 1951, sotto forma di embargo commerciale. La caduta del Muro ha riorientato di nuovo le scelte (non ancora le leggi) della neutralità svizzera in un’accezione più proattiva, ad esempio nei confronti della Serbia e del conseguente riconoscimento del Kosovo (1999-2000), cosa che non ha impedito una posizione di reale equidistanza nel caso dell’Iraq (2003).
Per farla breve, la neutralità svizzera è stata nei fatti più una biscia sinuosa che una linea retta, perché si è sempre adattata con intelligenza (a volte per mero profitto, più spesso per un alto senso morale) alla realtà dei fatti, e a quelle scelte hanno sovente corrisposto valori comunemente riconosciuti: l’indipendenza e la sopravvivenza del Paese, naturalmente, ma anche i cosiddetti «buoni uffici» e una grossa fetta della sua lunga e gloriosa storia diplomatica (Carl Lutz, se un nome va fatto e uno solo). Perché «neutralità», ci ricorda l’ex Consigliera federale Micheline Calmy-Rey, «non significa tacere nelle quattro lingue nazionali». Al cuore della questione c’è sempre stato, tra le righe, un rapporto dinamico con gli altri Stati e con le istituzioni sovranazionali in cui di volta in volta questi si sono riconosciuti (dalla Società delle Nazioni all’ONU alla NATO, poco importa che la Svizzera ne facesse parte o meno) e su una cosa ha ragione chi oggi grida allo scandalo di lesa neutralità: è necessario che chi ci osserva da fuori capisca fino in fondo le ragioni della nostra politica internazionale, per non cadere nelle banalizzazioni e nelle approssimazioni che sono proprie soltanto di chi non conosce nel dettaglio la nostra storia.
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