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Naufragi

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Ventiseiesimo anniversario di una strage; furono molte le firme sulla tragedia balcanica


Aldo Sofia
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Non solo Srebrenica
• 11 Luglio 2021 – Aldo Sofia
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C’è un anniversario, quello della strage di musulmani bosniaci a Srebrenica, ventisei anni fa. La rievochiamo oggi, angosciante pagina della guerra balcanica. Quel nome è diventato un simbolo. Anche di responsabilità politiche e morali diffuse, ma spesso eluse o occultate. Perché i massacri nella ex Jugoslavia portano, esplicite o meno, numerose firme, non solo quella di Radko Mladic, il generale serbo che nell’enclave selezionò e ordinò l’eliminazione di ragazzi e adulti, ufficialmente oltre ottomila (in realtà molti di più), corpi subito sepolti in fosse comuni, nell’impietoso e vano tentativo di occultare la tremenda verità; e non solo la responsabilità dell’ONU, che aveva affidato a un contingente di caschi blu olandese la disattesa protezione del ‘quadrilatero’ di Srebrenica e dei suoi inermi fuggitivi musulmani.

No, le responsabilità della mattanza balcanica, quindi anche del genocidio del 25 luglio 1995, sono numerose e diffuse. A cominciare dalla foga nazionalista di chi, scomparso Tito, all’interno della Federazione si precipitò sulla strada dell’indipendenza e della disgregazione del mosaico che il maresciallo – fra dittatura, fragile condivisione, semiaperture democratiche, audaci anche se incomplete elaborazioni ideologiche, autonomia dall’Urss, confini aperti – aveva cercato di cementare una somma di comunità e fedi religiose. Leader nazionalisti che in nome di un esclusivo patriottismo, regolarmente descritto come vittima del centralismo titino-serbo, introdussero violente parole divisive e d’odio in famiglie spesso multi-etniche e multi-religiose: parlando alle viscere di popolazioni facilmente manipolabili, alimentando paure di ogni tipo, ricorrendo alle menzogne di una propaganda che la penna esperta, sagace e informata di Paolo Rumiz ha descritto in modo esemplare, documentato e doloroso nel libro “Maschere per un massacro”.

Ne fecero le spese soprattutto gli abitanti della ‘Gerusalemme balcanica’, Sarajevo, laica capitale bosniaca, con i suoi cimiteri musulmani, cristiani, ebraici, e tante altre testimonianze di convivenza possibile, improvvisamente spezzata dall’assedio, dai mortai sparati dalle milizie della componente serba che ne controllavano le colline, dagli implacabili sniper (e non è un caso se la Bosnia musulmana del dopo-guerra sfornò poi molti foreign fighters  trasferitisi al servizio dello Stato islamico). Feroci nazionalismi regionali, ma anche miope sconsideratezza occidentale. Soprattutto europea. Con governi che sponsorizzarono e riconobbero senza esitazioni – e privi di capacità analitica – i propri ‘beniamini’, spingendoli verso un’indipendenza che avrebbe prodotto la più grande tragedia europea (per numero di vittime, distruzioni, trasferimenti in massa) dopo la seconda guerra mondiale. Inoltre, con una riedizione di ciò che sembrava non riproponibile in questa parte del mondo, l’arma della pulizia etnica di massa.

Così gli Accordi di Dayton del novembre 1995 furono ancora seguiti dal tentativo armato della Bosnia di Milosevic di non perdere del tutto la sua supremazia, dai bombardamenti Nato su Belgrado, dalla tragica ‘coda’ del Kosovo. E da ferite che rimangono aperte, istinti revanscisti, rivendicazioni territoriali non sopite, rischi di nuove esplosioni, tentativi di una integrazione europea incerta, faticosa, non proprio entusiasticamente supportata di chi in quell’Europa c’è già, ha i suoi problemi, ed è difficile che estenda i suoi contorni mentre le crisi interne si moltiplicano.

Ecco cosa simboleggia Srebrenica, al di là della sua vicenda specifica, terribile e non emendabile. Realtà ben più complessa, tener presente, per non ridurre l’anniversario a un momento che, esclusi superstiti e famigliari ancora in cerca di verità e giustizia, sarebbe vuoto e ritualistico.

Ho un ricordo personale, implacabile quando si tratta di ricordare cosa fu quella micidiale mischia su una parte martoriata d’Europa. Entravo per la prima volta a Sarajevo. Procedevamo spediti, in auto, lungo lo ‘Sniper boulevard”, il viale sempre sotto il tiro dei cecchini serbi. Un tram era immobile nell’alba gelida. Appoggiata al finestrino, la testa immobile di una ragazza. Immaginai potesse essere una studentessa che doveva raggiungere la propria scuola, o un’apprendista diretta chissà in quale inverosimile ufficio di una città in guerra.

Un foro nel vetro del tram. E nella tempia della giovane. Quel giorno, era soltanto la prima vittima nell’inferno dell’ex Gerusalemme.






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