Quadrare il cerchio
Gli orizzonti progettuali in un’area progressista chiamata a rispondere e a contrapporsi al potere ed al fascino delle parole d’ordine di una destra liberista e populista
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Gli orizzonti progettuali in un’area progressista chiamata a rispondere e a contrapporsi al potere ed al fascino delle parole d’ordine di una destra liberista e populista
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Gli orizzonti progettuali in un’area progressista chiamata a rispondere e a contrapporsi al potere ed al fascino delle parole d’ordine di una destra liberista e populista
Dahrendorf coglieva già le conseguenze negative della nuova fase che sintetizzava nella difficoltà, per il “primo mondo”, di tenere assieme tre esigenze che nei decenni precedenti l’Occidente euro-americano aveva saputo più o meno conciliare (il cerchio non si può quadrare, se non per approssimazione): crescita economica, coesione sociale e libertà politica (democrazia liberale). Si era di fronte alla crisi di quello che lo stesso Dahrendorf aveva chiamato il “compromesso socialdemocratico”. Eppure, concludeva, anche nella nuova fase occorreva tentare la quadratura: “Noi desideriamo la prosperità per tutti: ciò significa che siamo disposti ad accettare le esigenze poste dalla competitività dei mercati globali. Aspiriamo a società civili capaci di mantenersi unite e di costituire un solido fondamento di una vita attiva e civile per tutti i cittadini. Auspichiamo lo stato di diritto e istituzioni politiche che consentano non solo il cambiamento, ma anche la critica e l’esplorazione di nuovi orizzonti” (cit., p. 57).
Noi, a quasi trent’anni di distanza da quelle riflessioni, sappiamo come sono andate le cose: l’economia, al seguito delle ricette neoliberiste, è cresciuta senza grossi intoppi per più di un decennio, ma poi è arrivata la grande crisi del 2008, che ha mostrato l’incapacità del mercato di autoregolarsi e il ruolo inevitabile dello stato, e in seguito si sono manifestati altri fattori di una parziale deglobalizzazione economico-finanziaria (ad esempio, le nuove tendenze protezionistiche); i costi sociali dello sviluppo neoliberista hanno allargato drammaticamente le diseguaglianze e messo in crisi la coesione sociale: non ne è seguita una nuova stagione di lotta di classe, ma una diffusa rabbia sociale, emarginazione e sofferenza, lotte fra poveri, disprezzo generico per le élite e antipolitica; la democrazia ha perso di attrattiva in Occidente (non sarà un caso che sempre meno persone vanno a votare) e la globalizzazione ha favorito, fuori dall’Occidente, forme di capitalismo legate a modelli politici autoritari (India, Russia, Brasile; spesso, in Asia, alla loro guida troviamo partiti comunisti che hanno cambiato pelle e si sono posti al comando di una modernizzazione capitalista gestita dall’alto). Insomma, la quadratura del cerchio non è riuscita.
Nel frattempo le cose si sono ulteriormente complicate. In effetti manca al cerchio di cui parla Dahrendorf uno spicchio decisivo, di fatto il più importante perché concerne la stessa sopravvivenza dell’umanità: la sostenibilità ambientale. Anche riguardo a questa imprescindibile esigenza, è illusorio credere che sia automaticamente compatibile con le altre. Ritenere che la transizione ecologica sia socialmente indolore (pensiamo al fenomeno dei gilets jaunes) ed economicamente priva di problemi, in mancanza di interventi politici mirati alla sua gestione, sarebbe come credere ancora una volta in una qualche mano invisibile. No, il lavoro di composizione si complica maledettamente. Basta vedere quanto sta succedendo di fronte all’attuale crisi energetica: di nuovo tutti pazzi per il gas, e magari anche per il carbone, pur di salvare un po’ di crescita (ed evitare una decrescita poco felice).
Che la principale vittima della mancata quadratura del cerchio sia stata la giustizia sociale è certamente un motivo di grande onta per la sinistra occidentale. In piena espansione ancora alla metà degli anni Settanta, la sinistra ha poi cominciato a perdere di velocità, sotto la pressione della globalizzazione – in primo luogo della libera circolazione dei capitali – e delle nuove modalità produttive post-fordiste. L’ultima pagina della vecchia stagione fu la vittoria di Mitterand alle presidenziali francesi nella primavera del 1981, sulla base di un programma abbastanza radicale (nazionalizzazioni, imposta patrimoniale, aumento del salario minimo, rilancio della spesa pubblica). Spaventati dalla fuga di capitali, dalle conseguenze sui conti pubblici e dalla possibile perdita di competitività dell’economia, dopo pochi mesi i socialisti ridimensionarono decisamente il loro programma.
Alle difficoltà oggettive si è poi aggiunto un disorientamento culturale della sinistra, che l’ha portata a confondere il riformismo con la mera adeguazione all’innovazione tecnologica e alla flessibilità economica, eventualmente un poco mitigate nei loro effetti dall’intervento pubblico. L’idea di una politica economica che non ignorasse il nuovo, ma che comunque tentasse di vincolare le dinamiche produttive a obiettivi di progresso sociale, è stata abbandonata, anche perché il piano strettamente nazionale non era più adeguato al perseguimento di questi obiettivi e quello sovranazionale, almeno europeo, stentava a farsi strada.
Stagflazione e rallentamento della crescita furono imputati dalla teoria economica neoliberista ai tentativi precedenti di quadrare il cerchio. Il nuovo capitalismo aveva vinto, nella prassi e nella teoria economica dominante: la ricchezza certo aumentava, l’innovazione tecnologica offriva nuovi beni e servizi (basti pensare ai progressi nella medicina o nelle telecomunicazioni), ma le regole erano essenzialmente dettate dalla valorizzazione del capitale privato e dal mercato, che perseguivano i loro fini indipendentemente dalla società.
Mentre la sinistra riformista ha continuato a preoccuparsi di quadrare il cerchio, con assai modesti risultati (che la sinistra più radicale ha saputo solo denunciare), due forme di destra, in parte alleate e in parte rivali, hanno perseguito lucidamente l’idea di rinunciare alla quadratura: in primis ovviamente la destra liberal-liberista (in forte sintonia con i detentori della ricchezza), che ha pigiato sull’acceleratore della crescita economica via mercato, a danno della coesione sociale; e, in seguito, la destra etno-sovranista, che ha puntato, come reazione alla globalizzazione, sulla difesa dei confini della tribù e sull’esclusione di fasce sociali considerate estranee, a danno della democrazia liberale e dei diritti.
La prima destra può essere più sensibile della seconda alla democrazia e ai diritti, mentre quest’ultima lo è maggiormente alla coesione sociale, ma ambedue sono profondamente ostili all’eguaglianza e disposte sempre a prendersela con i più deboli: lavoratori precari, giovani devianti, disoccupati indigeni o migranti in cerca di un futuro. La narrativa neoliberista è oggi in forte difficoltà, quella della destra sovranista riesce invece a spacciarsi con efficacia come possibile alternativa alla prima, anche perché i fallimenti del liberismo sono recenti e sotto gli occhi di tutti, mentre quelli tragici del nazionalismo risalgono a parecchi decenni fa e sono da un pezzo sepolti nei cimiteri di mezza Europa.
Il possibile rapporto privilegiato fra sinistra e verdi, con l’irrompere della questione ambientale, ha aperto indubbiamente un nuovo orizzonte di azione alle forze progressiste. Se da un lato la quadratura del cerchio risulta ancora più difficile, perché si è aggiunto un ulteriore elemento, dall’altro dovrebbe forse emergere con più chiarezza l’insostenibilità, non solo sociale ma anche ambientale, di politiche che confidano esclusivamente nel mercato (la questione ambientale è certamente l’ambito di uno dei più grossi fallimenti del mercato, che non ha considerato le esternalità negative), ma pure di un sovranismo che non può certo sperare di fermare alle frontiere il cambiamento climatico o i virus. Solo una via concertata e cooperativa può funzionare. Inoltre, la questione ecologica ripropone il tema della qualità dello sviluppo, caro a una sinistra che sapeva come crescita non fosse sempre sinonimo di progresso. Si aprono nuovi orizzonti, ma la strada è comunque in salita e non può consistere nella mera restaurazione del passato. Inoltre, richiede interventi concreti e immediati, vista l’urgenza dei problemi: non ci si potrà accontentare di dire che “il problema sta a monte”.
Sarebbe stato bello che la presentazione della prima lista unitaria, in vista dell’elezione del governo cantonale, fra socialisti e verdi del Ticino fosse l’occasione per un’ampia riflessione comune su questi temi. Purtroppo sono altre le priorità, al momento: la scelta dei candidati. Da un lato la direzione del partito socialista si è incartata in una proposta assai rigida, che è anche l’effetto di una scarsa disponibilità di potenziali candidati a mettersi a disposizione (come mai?); dall’altra l’unica figura alternativa all’apparato sembra essere molto più amata fuori dal partito, e forse anche fuori dalla sinistra, che al suo interno; una personalità completamente estranea al processo che ha portato all’incontro rosso-verde e più in generale lontana dalla vita del partito, salvo quando si tratta di allestire le liste elettorali per il governo (senza tornare nostalgicamente al passato, un recupero del valore della militanza, accanto alla competenza, per selezionare il ceto politico, in alternativa alle lobbies e ai personalismi narcisisti, sarebbe auspicabile) e di cui è anche difficile scrutare il pensiero politico, perché un po’ restia ad esporlo.
Al di là delle scaramucce dell’attualità, i termini di un nuovo tentativo di quadrare il cerchio devono essere al centro della discussione e dell’azione: mercati globali, lavoratori e comunità locali, territori e ecosistemi, istituzioni democratiche garanti dei diritti e doveri di tutti, sono i poli di un lavoro di composizione, anche attraverso il conflitto in particolare con il potere economico, di un nuovo assetto delle nostre società, più giusto e sostenibile; in opposizione a una destra liberista che cerca ancora il primato dei mercati e del captale che ivi si valorizza, e a una destra sovranista che afferma il primato della comunità e del locale in forme autoritarie e discriminatorie: politicamente illiberali e socialmente non inclusive.
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