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Aldo Sofia
Aldo Sofia
Midterm americane attraverso quattro...
• 10 Novembre 2022 – Aldo Sofia
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Si può perdere senza essere veramente sconfitti? E, viceversa, si può vincere con la delusione di non avercela fatta davvero? Dal sacco della politica uscirebbero molte conferme di questa contraddizione solo apparente. Nella photo gallery delle ‘midterm elections’ americane è un susseguirsi di immagini che lo confermano.

Prima istantanea, quella di Joe Biden. Un semi-perdente che perdente non è. Sondaggi, previsioni, narrazioni scontate (tranne poche eccezioni, per esempio il famoso regista militante Michael Moore) pronosticavano che il presidente in carica – preso nella morsa dell’inflazione, dei timori diffusi di un precipitare della crisi economica, di una impopolarità diffusa – avrebbe subito una sconfitta bruciante, persino devastante. Non è stato così. Non ha fatto peggio di altri presidenti in carica nella verifica di metà mandato. ‘Oncle Joe’ il gaffeur, può respirare, ha respinto il grande assalto: a favore dei repubblicani perde sì la maggioranza alla Camera, ma meno del temuto; e, se gli riuscirà ‘il colpo’ nell’infuocato ballottaggio in Georgia (lo Stato della Federazione perennemente in bilico) potrebbe ottenere almeno un pareggio al Senato, rendendo meno difficoltoso il cammino della seconda parte della legislatura, che sarà comunque un percorso ad ostacoli. All’attuale, e non in formissima, capo della Casa Bianca si attribuiscono buone doti di mediatore, confermate con il varo recente del suo programma economico di mega investimenti per il rilancio economico attraverso il piano ultramiliardario per il rinnovo delle infrastrutture, che per la ‘superpotenza’ sono diventate una vergogna di arretratezza e di precaria manutenzione. C’era poi, al suo fianco, un convitato di pietra che sta a migliaia di chilometri di distanza, a Kiev, quel presidente ucraino Zelensky che sta vincendo nelle trincee della guerra che devasta il suo paese con l’invasione militare russa, ma che avrebbe avuto molte preoccupazioni in più se il suo alleato americano fosse diventato in tutto e per tutto ‘un’anatra (molto) zoppa’. Più di lui è in crisi, prospetticamente, il partito democratico: sempre lacerato fra le sue componenti (moderata e radicale) e ancora incapace di trovare una sintesi, e un candidato leader del futuro prossimo (“Ricandidarmi? Ne parlerò con la first lady”, ha detto l’altro giorno, ed è stata la prima volta che l’attuale presidente non ha fermamente ribadito la sua volontà di ripresentarsi fra un biennio).

Seconda istantanea, il ‘vincitore perdente’. Raccontano le cronache elettorali americane di un Donald Trump furente. La conquista del Congresso grazie anche alle vittorie di alcuni suoi fedelissimi (ma, anche qui, in numero minore del previsto) non gli basta. Contava su un trionfo, su uno ‘sfondamento’ che lo avrebbe catapultato nella sua seconda gara presidenziale. L’inciampo delle ‘midterm’ non lo esclude certo dalla competizione, e pare abbia mandato a quel paese consiglieri troppo insistenti nel raccomandargli un rinvio dell’annuncio della ri-candidatura alla Casa Bianca. Ma i giochi per lui si complicano. Scopre un paese che (dalla questione aborto alla generale difesa dei diritti) è più restio e resistente alle sue smargiassate, alla sua narrazione di un’America in pericolo da rifondare in base ai principi del conservatorismo più bieco, a primanostrismo – primatismo bianco – complottismo – razzismo latente, gomitolo di fili sospesi spesso da una totale irrazionalità. Una rivoluzione presunta contro l’establishment, un lavoro incessante (al basso ventre) sulle paure, una narrazione che sottace ma fa comunque emergere la preoccupazione popolare di una ‘sopraffazione’ delle minoranze. Ma per ‘The Don’, la grande amarezza sta proprio fra gli elettori repubblicani, nello scoprire che i candidati repubblicani da lui selezionati personalmente (compreso uno degli accusati dell’assalto a Capitol Hill) non hanno stravinto.

Quindi, terzo scatto. I vertici del Grand Old Party (GOP), il partito repubblicano, che potrebbe essere finalmente tentato di uscire dalla gabbia in cui l’ha infilato l’esuberante e invadente ‘esule di Mar-a-Lago’, dunque di ritrovare un ruolo non in toto dipendente dal ‘tycoon’. Scenario per nulla facile e scontato, e tuttavia possibile. Come detto, fra i nuovi eletti GOP molti sono di orientamento di certo più moderato, si sono almeno parzialmente distanziati dal mantra trumpiano della ‘vittoria mutilata e rubata’ del 2020, ci vanno molto più leggeri in fatto di complottismi e isterie correnti. Naturalmente è possibile che alla fine quei vertici, a lungo fiaccati da successi e prepotenza del trumpismo, si piegheranno e adatteranno di nuovo per non dare ai Democratici un decisivo vantaggio. E bisognerà vedere come decideranno di comportarsi (rispettare o no le regole?) qualora l’inchiesta sulla ‘sedizione’ antidemocatica del 6 gennaio si dovesse concludere con il rinvio a giudizio di Trump.

Quarta e ultima istantanea. Quella del vincitore assoluto e indiscusso, apparso con moglie e tre figli sul palco del trionfo in Florida, di cui si è confermato governatore con un autentico trionfo, e un record di suffragi: il 44enne Ron DeSantis, un altro tutto ‘Dio, patria, famiglia’, un iperconservatore anti-abortista, che ha ordinato il ridimensionamento nelle scuole delle lezioni dedicate ai problemi razziali e proibito che in classe gli insegnanti parlino di omosessualità. Provvedimenti criticatissimi dai progressiti americani, ma che evidentemente piacciano al suo elettorato della Florida. Si direbbe un ‘neo-trumpiano’, con la differenza del rispetto delle regole. E che, infatti, proprio Trump, fiutando ambizioni e chance del giovane competitore interno quale futuro candidato alla Casa Bianca, ha subito bombardato. Non solo lo ha bollato come ‘bigotto’. È andato ben oltre, lanciandogli personalmente una minaccia pesantissima: “Su di te so cose che potrei rivelare, su fatti che nessuno conosce, ad eccezione forse di tua moglie”. Il ‘Don’ non si smentisce mai. E non è detto che per lui sia sempre un vantaggio.






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