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Redazione
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Un ricordo di Eugenio Scalfari
• 14 Luglio 2022 – Redazione

Nel periodo elettorale i contributi di candidate e candidati sono benvenuti sulla nostra zattera secondo queste regole

È stata una delle grandi figure del giornalismo e del dibattito politico-culturale degli ultimi 70 anni in Italia. È morto all’età di 98 anni Eugenio Scalfari, fondatore e direttore di due testate cruciali come il settimanale “L’Espresso” e il quotidiano “La Repubblica”.

Proprio a “La Repubblica” l’ha conosciuto e frequentato quotidianamente come “Direttore”, il giornalista e scrittore luganese Paolo Di Stefano, cui abbiamo chiesto un personale ricordo di Scalfari. (red)

 

Paolo Di Stefano, perché secondo te Eugenio Scalfari è stato un protagonista del giornalismo italiano?

Basterebbe ricordare che ha partecipato alla fondazione del settimanale d’attualità e di cultura l’Espresso e che nel 1976 ha creato un quotidiano, la Repubblica, che è stato per l’Italia una novità assoluta di notevole impatto sociale, politico e culturale. Per tutto questo, ma non solo per questo, Scalfari viene giustamente considerato uno dei maggiori giornalisti del secolo scorso. Quando dico “non solo per questo”, penso agli editoriali (soprattutto della domenica) che hanno orientato per decenni l’opinione pubblica di sinistra e per reazione anche la parte opposta. Il giornale stentò all’inizio, ma dal 1978, con il rapimento di Moro, ebbe un rilancio straordinario (le Br avevano scelto la Repubblica per trasmettere i propri comunicati) fino a eguagliare e per una stagione a superare il Corriere della sera.

Quali sono i caratteri più significativi del direttore?

All’Espresso e alla Repubblica, come direttore, ha promosso la crescita di generazioni di giornalisti con intuizioni geniali (potrei stare a fare nomi e nomi per una decina di minuti). Tra l’altro, ogni ticinese dovrebbe essergli grato, per esempio, per aver accolto, nella cerchia illustre del cosiddetto paginone di Cultura, Enrico Filippini, intuendo il suo talento fino ad allora inespresso di cronista culturale.

È stato più che un giornalista?

Si può dire che sia stato uno degli ultimi intellettuali “engagé” del Novecento: lui amava definirsi un “libertino complessivo”, anche sul piano filosofico e politico. Certo è stato un intellettuale sia in proprio sia come organizzatore e “agitatore”. Quindicenne, calabrese di famiglia, nato a Civitavecchia, giovane fascista, dal 1938 Scalfari frequentò a Sanremo la stessa classe di liceo di Italo Calvino, e da allora fu un rapporto di amicizia e un sodalizio memorabili. Italo lo aiutò a sbarazzarsi di Dio (Eugenio avrebbe recuperato una sua filosofia mistica in vecchiaia avvicinandosi a papa Francesco) e lo introdusse alla passione per la cultura illuminista. Poi ci sono i suoi libri memoriali (La sera andavamo in via Veneto, dove rievoca la Roma della giovinezza e del Mondo). Altri libri sono saggi di carattere filosofico e letterario (anche un romanzo), molto discussi da alcuni e apprezzati da altri (Asor Rosa). In effetti forse nemmeno Montanelli ebbe tanti nemici (non solo da destra ma anche dalla sua sinistra). L’apice dell’ostilità maligna nei suoi confronti si manifestò quando ebbe l’onore di finire in un Meridiano Mondadori, la prestigiosa collana dei classici.

Paolo, a tuo parere e per la tua esperienza, qual è stata l’idea di “giornalismo” in cui più credeva e che perseguiva Scalfari? Se è stato un “maestro” di giornalismo (nel senso più nobile) qual è stata per te la sua lezione?

Intanto, come giornalista ha fatto delle inchieste storiche di grandissimo valore civile, per esempio quelle sui servizi segreti golpisti e su Cefis (Razza padrona è diventato uno slogan entrato nel linguaggio comune). Lo stile dell’editorialista ha fatto scuola: fermezza, chiarezza razionalista del ragionamento, ricchezza culturale dei riferimenti, indipendenza e imprevedibilità: a volte discutibile, per esempio quando, da liberale-radicale, socialista e poi comunista berlingueriano, si schierò con De Mita. Come direttore ha inventato formule nuove: con la Repubblica ha portato formati e stili anglosassoni (il tabloid non aveva mai avuto fortuna in Italia). Soprattutto ha inventato la cosiddetta settimanalizzazione del quotidiano, una sorta di approfondimento che comportava l’adozione di un linguaggio nuovo. È stato un innovatore a tutti i livelli.

Tu hai lavorato all’inizio degli anni Novanta alla Repubblica. Cosa ricordi di quegli anni?

Sono stato assunto in piazza Indipendenza nel gennaio 1991, in coincidenza con la guerra del Golfo. Il giornale era in fermento, io venivo dall’esperienza al Corriere del Ticino e poi all’Einaudi come editor, dove le riunioni del mercoledì erano molto ristrette e dove Giulio Einaudi dava del tu e si faceva dare del lei. Paolo Mauri, che era il caporedattore della cultura, mi accompagnò nell’ufficio dalle pareti gialle di Barbapapà (così veniva chiamato). Io ero molto intimidito e lui fu molto amichevole, mi impose subito il tu, perché, disse, «da oggi siamo colleghi». Conosceva perfettamente il mio curriculum (Svizzera, Pavia, Segre, Corti, Einaudi…).

Che ambiente hai trovato?

La Repubblica era un ambiente molto familiare: le riunioni del mattino erano aperte a tutti e per me fu una rivelazione. Imparai lì che cosa significa lavorare insieme (e sottolineo insieme) in un giornale. E con colleghi straordinari. Oltretutto, Scalfari introduceva la riunione ogni mattina alle dieci elencando i difetti del giornale in edicola e i pregi, anche nelle minuzie dei titoli, degli occhielli, dell’impaginazione e delle fotografie. Criticava ed elogiava, benediceva e sferzava senza pietà. Poi si passava in rassegna il menu di ogni settore. Riunioni aperte non solo ai giornalisti (che potevano essere anche Bocca, Pansa, Ronchey, Pirani, Volli, Ajello…), ma anche a collaboratori e politici (ricordo Pannella, D’Alema, dalla Chiesa, Segni…). Una quotidianità sempre eccezionale, l’idea di stare sempre al centro del mondo. Credo che molte volte Scalfari si sia pentito di avere ceduto la sua creatura, sia come direttore sia come proprietario.






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