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Lelio Demichelis
Ritorno al futuro. Da Elon Musk ad Adriano...
• 10 Giugno 2022 – Lelio Demichelis
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Ancora Elon Musk. Quello di Tesla e di SpaceX. Forse (forse) anche di Twitter. Ma Elon Musk è tornato sulla scena soprattutto dopo avere criticato lo smart working con una serie di messaggi con cui ha ordinato a tutti i dipendenti delle sue aziende di tornare a lavorare in presenza. Nel primo è scritto: “Chiunque voglia lavorare da remoto, deve essere in ufficio un minimo (e intendo esattamente ‘minimo’!) di 40 ore alla settimana, oppure deve andarsene dalla Tesla. […] Se ci sono collaboratori che forniscono un contributo eccezionale, per i quali questa richiesta risulta impossibile, io analizzerò e approverò personalmente eventuali eccezioni”. Tutto ribadito in un secondo messaggio: “Per essere super-chiaro. Ognuno alla Tesla è obbligato a lavorare un minimo di 40 ore alla settimana in ufficio. […]  Se non ti presenti, considereremo che ti sei licenziato. E più sei in alto nella gerarchia, più visibile deve essere la tua presenza”.

Ma come? Musk non è un imprenditore visionario, libertario, innovativo? E non si diceva che lo smart working da casa era il futuro del lavoro? Tutto falso, lo dice Elon Musk: che impone (ordina) ai suoi dipendenti di lavorare almeno (“un minimo!) 40 ore a settimana dall’ufficio (ma quante ore possono/devono invece lavorare fuori dall’ufficio?); che parla ancora di gerarchie ben visibili (ma le nuove tecnologie non promettevano di ridurre/eliminare proprio le gerarchie della vecchia fabbrica otto-novecentesca grazie anche a un lavoro virtuoso e libero/autonomo fatto di intelligenza e di conoscenza e svolto da dipendenti non più considerati lavoratori ma collaboratori dell’impresa?); e di eccezioni decise personalmente dal padrone Musk. Imprenditore visionario, dunque, come si vuole far credere; oppure imprenditore vetero/retrò, fermo a modelli fordisti e a fabbriche organizzate come caserme? Libertario o disciplinare?

Di più e peggio: Elon Musk ha annunciato pochi giorni fa il blocco delle assunzioni e il licenziamento del 10% dei dipendenti Tesla (pari a circa 10mila unità), a causa di una sua personalissima, ma non meglio precisata “bruttissima sensazione” sull’andamento dell’economia.

E da qui facciamo un salto indietro di circa settant’anni, appunto ad Adriano Olivetti (1901-1960). Grande imprenditore, lui sì grande innovatore, ma anche umanista, uomo di cultura, editore (importantissime le sue Edizioni di Comunità), utopista ma concreto, cercatore di bellezza e convinto che l’impresa non dovesse avere solo l’obiettivo della massimizzazione del profitto ma il rispetto per l’uomo. Su Olivetti torniamo perché è da poco uscito un nuovo libro, Adriano Olivetti un italiano del Novecento, scritto da Paolo Bricco e pubblicato da Rizzoli; ma soprattutto per confrontare il modello imprenditoriale di Olivetti con quello di Musk e dei suoi molti, troppi epigoni in giro per il mondo.

Provando qui a replicare in piccolo, nello spazio di questo contributo, ciò che fece anni fa l’olivettiano Luciano Gallino, uno dei massimi sociologi italiani, mettendo a confronto in due suoi libri (entrambi da Einaudi), il modello di impresa responsabile, appunto di Olivetti, con quello dell’impresa irresponsabile degli anni ’90, cioè gli anni della finanziarizzazione, della speculazione, del neoliberismo (qualcuno ricorda il caso Enron?), della precarizzazione del lavoro e che continua imperterrito ancora oggi, appunto con Elon Musk, con Jeff Bezos, con Mark Zuckerberg, con gli oligarchi della Silicon Valley, con i paradisi fiscali, con i bitcoin, con il capitalismo di piattaforma, con il capitalismo di sorveglianza, con mille altri imprenditori autocratici, irresponsabili verso i propri dipendenti, verso i territori su cui sono insediate le loro imprese, verso la società, verso le future generazioni – per non parlare delle lobby industrialiste impegnatissime in queste settimane, in Europa, a svuotare di impegni concreti il Green Deal e la transizione ecologica.

Anche la Olivetti, nel 1952-53 del secolo scorso dovette affrontare una crisi aziendale da sovra-produzione. I manager consigliarono di licenziare 500 operai e di ridurre la produzione. Adriano Olivetti ci pensò qualche giorno, poi decise di licenziare i dirigenti cattivi consiglieri e assunse 700 venditori. Nel giro di 18 mesi la situazione fu completamente rovesciata. Esattamente l’opposto di Elon Musk, che continua nella cinica non-filosofia neoliberale di questi ultimi quarant’anni di scaricare sempre sui lavoratori i problemi dell’impresa e il rischio d’impresa. 

Olivetti applicava cioè un modello imprenditoriale (vecchio, diranno i neoliberisti; modernissimo, diciamo noi), insegnatogli (“con termini perentori”) dal padre Camillo e richiamato da Adriano Olivetti in suo famoso discorso ora compreso nel volumetto Ai Lavoratori edito dalle nuove Edizioni di Comunità, rilanciate dai suoi eredi: “Tu puoi fare qualunque cosa tranne licenziare qualcuno per motivo dell’introduzione dei nuovi metodi organizzativi, perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia”.

Di più, come sintetizzava Luciano Gallino: gli utili della Olivetti “non si trasformavano, come invece avviene ai giorni nostri nella maggior parte delle imprese, in larghi dividendi per gli azionisti, né in compensi per i massimi dirigenti pari a tre o quattrocento volte il salario di un operaio, né in spericolate operazioni finanziarie. Diventavano alti salari, magnifiche architetture industriali, una buona qualità del lavoro, una crescente occupazione, nonché servizi sociali e culturali senza paragoni. […] E forse che i fini dell’industria si trovano semplicemente nell’indice dei profitti? – si domandava Olivetti e la sua risposta era un deciso no”. Olivetti immaginava infatti di costruire un’impresa di tipo nuovo, “al di là del socialismo e del capitalismo”; in un sistema dove il capitale azionario delle grandi e medie imprese “deve appartenere in parte alla comunità locale” e dove “alla loro proprietà e gestione partecipano insieme i lavoratori, le Comunità, lo Stato regionale”. Qualcosa di molto oltre l’autogestione nella allora Jugoslavia o la cogestione padroni/sindacati in Germania.

Certo, nessuno è perfetto e neppure Olivetti lo era. Ma sicuramente è attualissimo e modernissimo anche oggi – o soprattutto oggi. E ci fa sperare che ci possano essere ancora, da qualche parte (sì, nonostante le dure repliche della storia – e certamente non a Davos o a Basilea o a Zurigo – o nella Silicon Valley, sul cui altrettanto pessimo modello imprenditoriale consigliamo di leggere La valle oscura, di Anna Wiener, Adelphi) – imprenditori illuminati, umanisti, responsabili, lungimiranti e non legati compulsivamente solo al qui e ora e alla massimizzazione del loro profitto. Capaci di porsi (come deve essere; come sosteneva appunto Olivetti) al servizio della società; e quindi di democratizzarsi come imprese e di democratizzare i processi di innovazione tecnologica che attivano (e che impattano oggi, come mai prima d’ora, come dati di fatto sull’uomo e sulla società, ma a prescindere dall’uomo, dalla società e dalla democrazia: che non può e non deve fermarsi davanti ai cancelli dell’impresa, ma deve entrarci dentro), imprenditori capaci di essere responsabili anche verso le future generazioni, evitando il green-washing. 

Ricordando loro questa ulteriore riflessione di Olivetti: “La spinta alla conquista di beni materiali ha corrotto l’uomo vero, ricco del dono di amare la natura e la vita, che usava contemplare lo scintillio delle stelle e amava il verde degli alberi, amico delle rocce e delle onde, ove, tra silenzi e ritmi, le forze misteriose dello spirito penetrano nell’anima”. 

Meditate imprenditori; meditate Scuole di management.

Nell’immagine: il calcolatore da tavolo programmabile Olivetti Programma 101, considerato da alcuni storici dell’informatica il primo personal computer della storia






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