Roald Dahl e la censura che non c’è
L’adeguamento alla sensibilità corrente dei libri per bambini e ragazzi del grande scrittore inglese merita ulteriori riflessioni ed un maggior approfondimento
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L’adeguamento alla sensibilità corrente dei libri per bambini e ragazzi del grande scrittore inglese merita ulteriori riflessioni ed un maggior approfondimento
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L’adeguamento alla sensibilità corrente dei libri per bambini e ragazzi del grande scrittore inglese merita ulteriori riflessioni ed un maggior approfondimento
I tre libri più importanti della mia vita sono libri per ragazzi: “Lo stralisco” di Roberto Piumini, “Il mago” di Ursula K. Le Guin e “La fabbrica di cioccolato” di Roald Dahl. Sono quelli che mi hanno fatto diventare un lettore. Per questo, quando hanno toccato i romanzi di Dahl, ho dovuto assicurarmi che non avessero toccato anche una parte di quello che sono.
Intervenire su un testo dopo la pubblicazione è un’operazione delicata. Roba da orologiai. E la mia prima impressione, leggendo di quelle centinaia di modifiche, è stata che si fosse andati a cogliere margherite con la motosega.
Nonostante questo, la parola che veniva urlata in continuazione ‒ censura ‒ mi suonava profondamente sbagliata. Parlare di censura, per un’operazione che mira a far sì che i romanzi di Roald Dahl vengano letti anche nei decenni a venire, è già di per sé paradossale. Ma soprattutto, nessuno in nessun momento ha indicato di voler eliminare i testi originali, che sarebbero per esempio rimasti a disposizione nelle biblioteche (sono figlio di un bibliotecario: che non si provi a sminuire il ruolo delle biblioteche nella conservazione e nella promozione della cultura). E con il parziale passo indietro da parte dell’editore, che in un secondo tempo ha annunciato l’intenzione di continuare a pubblicare anche le versioni originali, il rischio di censura mi è presto parso del tutto scongiurato.
Ma se si è gridato alla censura, credo, è soprattutto perché si è frainteso il senso dell’operazione. A mancare, in tutto il dibattito che ha seguito la decisione di aggiornare i più importanti romanzi di Roald Dahl, è stata la voglia di capire cosa avesse davvero fatto l’editore, e perché. Il breve comunicato in cui si annunciava la parziale retromarcia offre un indizio importante: in ben due punti, si sottolinea come le nuove versioni siano state pensate e studiate per permettere a bambini e bambine di leggere i romanzi di Roald Dahl «independently», ovvero in autonomia, senza l’accompagnamento di un adulto. Il che non vuol dire ‒ come ho letto e sentito ‒ che siano versioni edulcorate o semplificate.
Prima di portare un paio di esempi, che aiutano a farsi un’immagine più chiara di cosa questo significhi, lasciatemi dire che i libri di Dahl si prestano alla perfezione a questo tipo di lettura. Sono, nella maggior parte dei casi, storie che potrebbero svolgersi appena fuori dalla porta di casa e nell’istante esatto in cui le leggi, ciò che aiuta sempre quando si fanno i primi passi in un mondo nuovo come può essere quello dei libri. E poi sono irriverenti, soprattutto nei confronti degli adulti; ma per l’appunto, se nei paraggi c’è un genitore o magari una docente, che oltre a essere bersaglio di quell’irriverenza prova anche a spiegartela, si perde almeno l’87,5%[1] del piacere.
Non da ultimo, le storie di Dahl affondano il coltello nelle più grandi paure di bambini e bambine. Prendete Il GGG: cosa può esserci di peggio, a 8 anni, che essere rapiti e allontanati dai propri luoghi e persone di riferimento, rimanendo in balia di giganti che potrebbero fare qualsiasi cosa di noi? Sarebbe davvero un peccato se, mentre ci troviamo nella grotta con Sofia durante la visita del Ciuccia-Budella, ci fosse lì accanto un adulto a sussurrarci che andrà tutto bene. Ciò che nella vita è un rassicurante e potentissimo “mi prendo cura di te”, quando siamo immersi nella lettura si trasforma in un antipatico e orribile spoiler.
Ma davvero quelle storie, così come le ha scritte Dahl, non possono essere lette in autonomia da bambini e bambine del 2023?
Si è parlato molto di “fat” ‒ “grasso”, anche se in Charlie and the Chocolate Factory suona più come “ciccione” ‒ parola che sarebbe stata “bandita” dai “censori”. Il fatto è che nel 1964, l’anno di pubblicazione del libro, i bambini ciccioni in Gran Bretagna erano pochi e vivevano perlopiù in famiglie ricche. Oggi in Inghilterra, alla fine della scuola elementare, un bambino su tre è obeso o in sovrappeso, e ha più del doppio di probabilità di far parte del 10% più indigente della popolazione che del 10% più benestante. Qualsiasi cosa volesse lasciar intendere Dahl, quando ha scritto che Augustus Gloop era «enormously fat», nel corso degli ultimi sei decenni ha indubbiamente cambiato sfumatura di significato.
Per inciso, l’ingordo e viziato Augustus, a cui nelle nuove versioni è stato tolto l’appellativo di “ciccione”, continua a fare una fine orribile a causa della sua propensione a ingozzarsi di qualsiasi cosa di commestibile gli capiti a tiro. A una lettura appena approfondita, risulta chiaro che la causa del suo male è l’ingordigia, più che il fatto di essere grasso. Ma c’è un reale rischio che un giovane lettore in sovrappeso, già statisticamente più portato ad avere una bassa autostima di sé, pensi che il semplice fatto di essere grasso possa portarlo a fare una brutta fine nella vita. Non vale di certo per tutti i bambini che si trovano in questa situazione. Ma per qualcuno sì. E “qualcuno” preso da “uno su tre”, comincia a essere un numero cospicuo di persone.
Altro esempio, preso da Le streghe (anno di pubblicazione: 1983). In un passaggio di quel libro, Dahl scrive che le streghe portano una parrucca, ma mette in guardia sul fatto che sarebbe folle andare in giro a tirare i capelli a ogni donna incontrata per strada, per verificare se si tratti o meno di una strega. Nella nuova versione, questo passaggio è stato riscritto, rafforzando il messaggio con l’aggiunta dell’idea che esistono tante altre valide ragioni per cui una donna potrebbe portare una parrucca. Per esempio ‒ aggiungo io ‒ un disagio a esporre la propria testa calva mentre ci si sta sottoponendo a dei cicli di chemioterapia. Oppure, perché nella propria cultura è assolutamente normale portare e cambiare parrucca di tanto in tanto. A Basilea, dove lavoro, ogni volta che mi reco in ufficio passo davanti a un negozio di parrucche, la cui clientela è formata perlopiù da donne africane perfettamente in salute. Non so quanti negozi del genere esistessero a Londra nel 1983, ma oggi il Regno Unito è il secondo maggior importatore di parrucche al mondo. E sono anche piuttosto certo che, quando il libro è stato scritto, la nostra battaglia contro il cancro non contemplava le ricadute psicologiche dei trattamenti, i quali si accontentavano di provare a tenerci in vita.
Dahl non poteva sapere che la società sarebbe evoluta in questa direzione. E i bambini e le bambine del 2023 non sono tenuti a sapere che, quarant’anni fa, il mondo era diverso da quello che loro hanno appena cominciato a esplorare, magari accuditi da una madre che sta curando un tumore al seno o da una zia di origine nigeriana che ama mostrarsi con i capelli biondi di tanto in tanto, e che nessuna compagna di scuola ha il diritto per questo di definire streghe.
Nel 2023, i testi scritti da Roald Dahl come li ha scritti Roald Dahl non suonano come li aveva intesi Roald Dahl, soprattutto per il pubblico a cui erano e sono destinati, ovvero i bambini. È un fatto. A questo punto, le alternative sono due:
E allora, per ognuno e ognuna di voi che mi leggete, ho un compito ‒ sì, un compito: la cultura è un affare troppo importante per lasciarlo solo ai tecnici e alle scelte del mercato: riflettete a quale di queste due opzioni sia preferibile, o meno problematica. E se optate anche voi per la seconda – come ha fatto l’editore, in accordo con chi detiene i diritti d’autore – ho un compito aggiuntivo: chiedetevi, per ogni singolo intervento effettuato sul testo, se fosse necessario e se sia riuscito.
Per questo, l’auspicio è che venga presto resa pubblica l’integralità delle centinaia di modifiche apportate. Sarebbe bello e importante poter utilizzare quel documento per discuterne direttamente con i bambini, nel quadro di un’arricchente lettura accompagnata. Con l’invariata ferocia dell’Inghiotticicciaviva e con le sempre insidiose trappole di Willy Wonka e degli Umpa Lumpa, invece, sapranno certamente cavarsela da soli.
[1] Percentuale senza alcun senso concreto, definita ascoltando “Money” dei Pink Floyd (che è in gran parte in 7/8) in reazione al fatto che sì, certo, quella sui testi di Dahl è indubbiamente anche un’operazione commerciale, oltre che culturale. D’altronde nessuno dice il contrario. E che un editore elabori strategie per vendere più libri possibile non è certo un male, soprattutto se si tratta di capolavori indiscussi come quelli di Roald Dahl: è anche questa – e come potrebbe essere altrimenti? – promozione della lettura.
Sebastiano Marvin è redattore di Cooperazione e membro del comitato del festival internazionale di letteratura ChiassoLetteraria
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