Se la democrazia si rivolge agli antidemocratici
Dalla Cina all’Iran, l’0ccidente sconfitto in Afghanistan si appella a nazioni che non sanno che farsene dei diritti umani
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Dalla Cina all’Iran, l’0ccidente sconfitto in Afghanistan si appella a nazioni che non sanno che farsene dei diritti umani
• – Redazione
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• – Franco Cavani
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• – Enrico Lombardi
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• – Rocco Bianchi
Fra una variante e l’altra del virus tornano in scena anche gli effetti del tifo
• – Enrico Lombardi
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• – Aldo Sofia
Riflessione di un lettore - "Se gli specialisti confondono più che chiarire"
• – Redazione
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• – Daniele Piazza
• – Franco Cavani
Incontro con Gilles Kepel su come la sconfitta occidentale in Afghanistan rianima jihadismo e islamismo radicale, e cosa insegna all'Occidente
• – Aldo Sofia
Tra le sconfitte politiche e morali degli occidentali in Afghanistan, ce n’è una di cui si parla poco, o per nulla. Ed è che le nostre democrazie affidano parte delle loro speranze – per profughi e interlocutori ‘calmieranti’ dei talebani – a nazioni dittatoriali, o illiberali, oppure santuari dell’islamismo più radicale. Nell’ordine Cina, Iran, Russia e Turchia, più naturalmente il Pakistan. L’Occidente ha convissuto, protetto, fatto affari con ogni sorta di regimi totalitari. Ma mentre il ponte aereo da Kabul è ormai agli sgoccioli, e si sottolineano i rischi per chi rimarrà sotto il tallone della dittatura talebana (rischi specialmente per le donne), questo paradosso è ancor più stridente.
Affidarsi a Pechino, la potenza della negazione totalitaria dei diritti umani, comprese le minoranze, con particolare accanimento oggi nei confronti della componente musulmana, gli uiguri dello Xinjiang, e che si è precipitata a riconoscere sul piano diplomatico i ri-conquistatori di Kabul. Oppure all’Iran, che da minaccioso capolista nella lista dei vari ‘imperi del male’ stilata ad Ovest diventa presentabile, sdoganabile, soprattutto utile e funzionale ai nostri bisogni se si prendesse un altro po’ di profughi afghani, e ci desse una mano per evitare che il futuro Afghanistan diventi di nuovo faro e piattaforma di altre Al Qaeda. Poi Vladimir Putin, il campione dell’anti-liberalismo interno, di cui si conoscono i metodi con cui ha messo e mette in riga dissidenti e ribelli delle ex Repubbliche sovietiche percorse da irredentismo musulmano (avete certamente idea di cosa hanno combinato i combattenti ceceni; ma anche di come sia stata ridotta la Cecenia arata dalla violenza scatenata dal Cremlino?). E la Turchia, che persino uno come Mario Draghi ha detto papale-papale del suo presidente Erdogan che è un dittatore: che a suon di miliardi trattiene (ricattando l’Europa inesistente) tre milioni e mezzo di siriani, occupa parte della Siria settentrionale con squadracce che hanno nel mirino la comunità curda, e sta costruendo 299 chilometri di muro lungo il confine con l’Iran con principale scopo di tenere alla larga proprio gli afghani in fuga dagli ‘studenti coranici’. E il Pakistan, certo, che pullula di madrase dove si insegna l’interpretazione più oscurantista del Corano, autentica polveriera dell’islamismo fondamentalista, potenza nucleare, che ha spesso eterodiretto e manipolato le vicende e le guerre afghane (spesso grazie ai dollari americani e alle armi di provenienza statunitense).
Eccole le nazioni esemplari a cui l’Occidente è ora costretto a rivolgersi nel tentativo di non pagar ulteriore dazio geo-politico e umanitario dopo la fuga da Kabul, nazioni assai soddisfatte di un’America e di un’Europa in difficoltà d’immagine come mai era accaduto. Dove sta la difesa dei diritti umani che – ancora di recente a Ginevra, nel vertice con Putin – il presidente Biden ribadiva come elemento centrale e irrinunciabile dell’“America che ritorna” nel mondo? E dell’indice sempre puntato contro la Cina, nuovo competitore anti-democratico e ‘sistemico’ a livello planetario? Come non vedere che tutti quei regimi hanno, singolarmente e per ragioni diverse, anche da preoccuparsi del nuovo ordine che regnerà a Kabul dal prossimo 31 agosto? E come farà l’Europa a riprendersi dopo quest’altro calcione alla sua credibilità, supinamente messa al servizio della superpotenza d’oltre Atlantico? Forse è soltanto un’istantanea passeggera. Forse tutto si ricomporrà in un mosaico internazionale meno sbilenco e più equilibrato. Ma per ora l’immagine è questa. Impietosa. Mentre la vicenda afghana ripropone l’irrisolto dibattito se la democrazia (o presunta tale) si possa esportare e come, la stessa democrazia deve appellarsi a chi se ne fa beffe.
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