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ell’ambito degli interventi per ricordare, raccontare e commentare il colpo di Stato in Cile contro il governo democratico e socialista di Salvador Allende, vi proponiamo l’intervento dello storico Danilo Baratti, curatore con Patrizia Candolfi dell’autobiografia di Guido Rivoir (“Le memorie di un valdese”, Fondazione Pellegrini Canevascini, Bellinzona 2012), in occasione di un dibattito tenutosi a Locarno l’11 settembre scorso, giorno del 50esimo anniversario del golpe.
Come previsto toccherò le reazioni al golpe cileno in Svizzera, la nascita dell’ “Azione posti liberi”, e infine la figura di Guido Rivoir. Ma prima penso che possa essere utile qualche considerazione sul contesto. Il tema centrale di questo incontro è lo slancio di solidarietà che si è manifestato dopo il golpe nei confronti dei cileni perseguitati. In quel periodo molti paesi del Cono Sur vedono l’affermazione di regimi militari originati da colpi di Stato: l’Uruguay in quello stesso anno (1973), l’Argentina nel 1976. In Brasile e Bolivia i militari erano al potere già nel 1964, e in Paraguay dal 1954. Pur diverse, queste esperienze hanno parecchi elementi in comune. Del resto questi paesi hanno collaborato tra loro, nell’ambito dell’Operazione Condor, nell’eliminazione sistematica degli oppositori politici, con l’aiuto della CIA: un altro elemento comune di queste dittature è il sostegno politico, economico, diplomatico e militare degli Stati Uniti (della politica attivamente ostile degli USA nei confronti del governo Allende, già prima del suo insediamento, parla anche un articolo di oggi sul Corriere del Ticino). Però di fronte a nessun altro colpo di stato si è verificata una reazione paragonabile a quella generata dall’11 settembre. Come mai?
Una ragione fondamentale è che il Cile stava sperimentando una via democratica al socialismo, seppur difficile, a tratti caotica e condotta senza una maggioranza in parlamento. Dopo il fallimento di molte guerriglie di matrice urbana o rurale (emblematica quella del Che in Bolivia, 1967), l’esperimento cileno suscitava attenzione e speranza. L’altro elemento è la violenza smisurata e palese messa in campo dai golpisti, di cui il bombardamento del palazzo presidenziale con aerei da guerra, militarmente inutile, è l’elemento più simbolico. Dietro la violenza esibita c’è poi l’altra, altrettanto innecessaria, che colpisce le persone dietro la scena: basti ricordare i 44 colpi di pistola sparati su Victor Jara, già debilitato dalla detenzione e dalle torture (forse avete letto che solo pochi giorni fa sette dei suoi carnefici sono stati condannati a pene tra gli 8 e i 25 anni). Poi si sarebbe anche affermata la forma più brutale di violenza economica, quella neoliberista…
Questa violenza plateale, dicevo, è un altro dei motivi che hanno prodotto diffusa reazione di condanna fuori dal Cile. Non è che la violenza mancasse altrove. Anzi: il periodo tra gli anni Settanta e Ottanta vede “scomparire” nel nulla migliaia di oppositori politici o presunti tali. Non esistono cifre precise, ma sono forse trentamila in Argentina, alcune migliaia in Cile e Paraguay, qualche centinaio in Uruguay e Brasile. Persone arrestate abusivamente, rinchiuse in centri segreti di detenzione, torturate e infine spesso eliminate. L’orrore argentino ci è arrivato più tardi, grazie in primo luogo alle madri e alle nonne di Plaza de Mayo. In Argentina il regime militare, proprio in seguito all’esecrazione internazionale provocata dal golpe cileno, aveva costruito un sistema altrettanto brutale ma meno appariscente: le sparizioni diffuse e i voli della morte organizzati in segreto non suscitano la stessa reazione dello stadio di Santiago trasformato in un campo di concentramento o di un palazzo presidenziale bombardato dall’aviazione. E del resto l’Argentina non stava percorrendo una propria via al socialismo in cui potersi specchiare. Differenze a parte, il golpe in Cile ha fatto scuola, la peggior scuola possibile.
Veniamo alla Svizzera: a uno slancio di sdegno e solidarietà di un’ampia parte della popolazione si contrappone una grande prudenza da parte del governo. Certo la via cilena al socialismo non era fonte di ispirazione per il Consiglio federale, ma si trattava comunque della liquidazione violenta di un processo democratico e ci si poteva attendere un atteggiamento più aperto, anche se all’ambasciata svizzera di Santiago il giorno del golpe si era stappato lo champagne (non è una voce maligna, ma una dichiarazione dell’ambasciatore stesso, che di nome faceva Charles Masset; altre affermazioni dell’ambasciatore si possono leggere in un dossier dei Documenti diplomatici svizzeri, ripreso in parte appunto sull’edizione odierna del Corriere del Ticino). Se alla fine qualche centinaio di cileni ha potuto trovare rifugio in Svizzera, è solo per la generosità e la determinazione di una parte della popolazione: una parte solidale non piccola, che non si limita ai partiti e movimenti di sinistra ma si allarga ad ambienti cattolici ed evangelici e a tutti quelli che all’epoca avremmo chiamato “sinceri democratici”. A fine ottobre il Consiglio federale, dopo vari tentennamenti, presenta in pompa magna la sua Sonderaktion (Azione speciale): accoglie 200 profughi dal Cile, ma li sceglie principalmente tra non cileni, soprattutto brasiliani che si erano rifugiati in quel paese: per loro sarebbe stato più facile ottenere il permesso di uscita e non ci sarebbero state troppe frizioni con i golpisti. Con questa mossa il governo svizzero vuole confermare la sua reputazione umanitaria, ben cosciente però – come emerge dai documenti interni del Dipartimento di giustizia e polizia – che le persone veramente in pericolo sono altre e che la situazione drammatica richiederebbe altri provvedimenti. Tra le voci che criticano la prudenza del governo troviamo la Dichiarazione di Berna, Amnesty International, il gruppo Cristiani-Terzo mondo di Ginevra e altri ancora. C’è chi chiede di portare almeno a 500 il numero di entrate previsto. A fine dicembre anche un appello dell’Agenzia dell’ONU per i rifugiati richiama i governi a una maggior apertura. Ma il governo federale rimane passivo. Si attiva solo nell’ostacolare il progetto dell’Azione posti liberi, lanciato dalla Gesellschaft der Freunde Chiles: Associazione degli amici del Cile.
Il gruppo si presenta per la prima volta con una conferenza stampa a inizio dicembre: critica fermamente la politica d’asilo della Confederazione e propone la creazione di una rete permanente di accoglienza dei profughi diffusa sul territorio, sul modello dell’ “Azione posti liberi” promossa nel 1942 dal pastore Paul Vogt, noto come «il pastore dei rifugiati», pure presente alla riunione. Alla base di questa associazione vi sono persone vicine a Longo Maï, gruppo nato da esperienze alternative di matrice anarchica avviate nel ’68 in Svizzera e in Germania, che aveva creato nel 1973 la sua prima cooperativa agricola (Longo Maï è certamente uno dei più bei prodotti, e durevoli, del Sessantotto: è presente in mezza Europa con una rete di cooperative dedite all’agricoltura, all’allevamento, all’artigianato e alla piccola industria. Una delle ultime cooperative è nata in Transcarpazia ed è ora impegnata nel sostegno agli sfollati interni dell’Ucraina. Longo Maï non ha mai smesso di abbinare autoproduzione, autogestione e solidarietà internazionale, con particolare attenzione a chi fugge da situazioni di oppressione). Insieme a loro, a promuovere l’Azione posti liberi c’è Cornelius Koch, allora supplente parroco a Vogorno. Koch è noto per aver dedicato tutta la vita all’aiuto ai rifugiati; qualcuno magari ricorda il Primo d’agosto alternativo che organizzava, con altri, a Chiasso. (Una sua biografia, scritta da due suoi stretti collaboratori, è uscita in tedesco e poi in francese, dalle Editions d’en bas, una decina di anni fa: Cornelius Koch, l’abbé des réfugiés).
Nasce così il progetto in cui si inserirà un paio di mesi dopo Guido Rivoir: a metà dicembre l’ “Associazione degli amici del Cile” lancia un appello per ospitare profughi dal Cile, che raccoglie in poche settimane due o tremila adesioni, tra cui qualche decina di municipalità e di parrocchie cattoliche o protestanti. Il 20 febbraio l’ “Azione posti liberi” annuncia l’arrivo dei primi cileni, che atterrano a Ginevra tre giorni dopo, sotto i riflettori della stampa: il Consiglio federale si trova di fronte al fatto compiuto, ammette quei cinque ma il giorno stesso stabilisce che i cittadini cileni che vogliono raggiungere la Svizzera devono avere un visto rilasciato dalle autorità diplomatiche svizzere a Santiago. Maurizio Rossi, che ha studiato l’atteggiamento della Confederazione di fronte al golpe e alla solidarietà dal basso, titola il relativo capitolo “Dall’indifferenza alla chiusura” (approfitto per segnalarlo: Solidarité d’en bas et raison d’état. Le Conseil fédéral et les réfugiés du Chili, Alphil 2008). Reagiscono all’imposizione del visto i pastori riformati, che in 600 firmano un appello al Consiglio federale, a cui si affianca un’altra petizione, di 7 mila firme, raccolte dai Comitati di sostegno al Cile. Si esprimono criticamente Max Frisch e altre personalità. E per l’Azione posti liberi inizia il periodo della disobbedienza. Una disobbedienza che si accompagna a una difficile attività diplomatica. Guido Rivoir, entrato a coordinare l’Azione nel febbraio 1974, incontrerà più volte il Consigliere federale Kurt Furgler, costringendo il governo a digerire discretamente l’entrata clandestina in Svizzera di parecchi cileni richiedenti l’asilo: «una lunga partita di scacchi», si intitola il capitolo di Maurizio Rossi che parla di questi incontri. Nel corso del primo incontro si stabilisce, in forma confidenziale, che i cileni avrebbero dovuto prima richiedere il visto all’ambasciata svizzera di Milano, e sarebbero poi stati accolti. Visto che ne parleranno probabilmente i miei compagni di tavolo, non entro in certi dettagli dell’Azione posti liberi e di come questa abbia coinvolto la popolazione e le istituzioni del Ticino, né dell’importante decreto d’abbandono della procura pubblica sottocenerina che solleva Rivoir dall’accusa di aver violato la Legge federale sulla dimora e il domicilio degli stranieri. Mi limito a ricordare che grazie a questa azione, che si interrompe nel maggio del 1976, circa 400 cileni in pericolo hanno potuto trovare un porto sicuro nella Confederazione.
Veniamo per concludere a Guido Rivoir. Egli non aveva partecipato alla nascita dell’Azione posti liberi e si trova a coordinarla un po’ per caso. Cornelius Koch, entrato in conflitto molto duramente con il consigliere federale Furgler, decide di mettersi in ombra e di affidare il coordinamento a una persona affidabile ma meno profilata. Si chiede a Guido Rivoir, che si rivela la persona ideale, in grado di coniugare accortezza e determinazione. Va ricordato che quando accetta questa carica ha già 72 anni. È un pastore valdese in pensione che vive a Lugano dal 1937. Non ha mai fatto politica nel senso stretto del termine ed è pubblicamente noto soprattutto per le sue predicazioni radiofoniche e televisive. Alla base della sua decisione di candidarsi poi alle elezioni comunali del 1976 c’è stata anche l’esperienza dell’Azione posti liberi. Resterà in Consiglio comunale fino alla soglia degli 85 anni, con un biennio anche in Gran Consiglio, e questo impegno lo renderà ancora più popolare.
Ma qui mi interessa parlare del prima, capire cosa porti Rivoir a essere la persona giusta per l’ “Azione posti liberi”. In questo caso bisogna anche andare indietro di generazioni: Rivoir non era solo un valdese, ma un valdese “delle Valli”, cresciuto quindi in un territorio che conserva in sé la memoria viva della persecuzione, dei massacri, dell’esilio, dell’avventuroso ritorno, del ghetto alpino e, infine, della piena emancipazione. Le posizioni e le azioni della chiesa valdese di oggi, e di Rivoir, si spiegano anche con queste radici storiche. A lasciare un segno forte è poi il periodo degli studi a Firenze, alla facoltà valdese di Teologia, tra il 1920 e il 1922: «Andai a Firenze a studiare, senza una linea politica (…) A Firenze incontro il fascismo col suo vero volto (…) leggo delle squadracce fasciste all’opera. Le vedo in azione anche sul posto, vigliaccamente e prepotentemente. Il governo le protegge, per combattere il socialismo; è quello che non mi va giù nel mio concetto di giustizia e di democrazia. Il governo aiuta i malfattori. (…) Non posso che essere antifascista».
Poi l’Uruguay, il primo impegno pastorale di Rivoir nelle colonie valdesi del Rio de la Plata: un bagno intenso nella realtà sudamericana che gli verrà utile mezzo secolo più tardi per l’Azione posti liberi: nel 1974 Rivoir andrà personalmente, due volte, a Buenos Aires, alla ricerca dei contatti utili per il trasferimento delle persone in pericolo dal Cile a Milano. Dopo l’esperienza uruguaiana è pastore della comunità valdese di Prarostino, il suo paese d’origine in Italia: siamo negli anni Trenta e il suo antifascismo non può che rafforzarsi. È anche per questa sua inconciliabilità col regime che la Tavola valdese preferisce mandarlo a Lugano, nel 1937.
In termini generali possiamo individuare in Rivoir una grande sensibilità sociale, un forte senso della giustizia, un saldo antifascismo, un notevole spirito di intraprendenza, uno slancio battagliero quando sente di essere nel giusto, buone capacità comunicative e di organizzazione. Ma poi, più strettamente in relazione con la vicenda dei profughi cileni, la conoscenza del Sudamerica e dello spagnolo. E ancora gli stretti contatti col mondo valdese, che torneranno utili alla causa: i biglietti d’aereo per i fuggiaschi gli sono anticipati da un suo nipote, ex-capo partigiano e ora direttore di un’agenzia di viaggi, mentre la comunità valdese di Cinisello Balsamo sarà una tappa importante per i cileni giunti a Milano in attesa di raggiungere il Ticino (un’attesa a volte non breve). Aveva poi seguito con sgomento lo svolgersi dell’esperienza cilena: «Quando Pinochet trucidò barbaramente il presidente eletto e legittimo del Cile, Allende, e scatenò una crudele persecuzione contro gli oppositori ne soffrii moltissimo (…) mi sentii ferito per questo ideale infranto di libertà acquistata liberamente coll’urna. Dappertutto vi furono manifestazioni di solidarietà con gli oppressi ed anch’io, che ufficialmente non avevo mai militato in partiti politici, vi partecipai».
Tenendo conto di tutto ciò, possiamo dire che quando gli è stato chiesto di mettersi alla testa del comitato era pronto a farlo ed era la persona giusta per quell’incarico.
Anni dopo, il suo impegno è stato riconosciuto: nel 1992 dal Cile post-dittatura con il conferimento di un’onorificenza, la medaglia O’Higgins, e nel 2018, implicitamente, dall’ufficialità luganese, cantonale e federale, quando si è inaugurato, al Parco Ciani, il Giardino dei Giusti su iniziativa della Fondazione Federica Spitzer. E qui va detta una cosa importante: rendere omaggio a Rivoir, che dell’ “Azione posti liberi” è stato il volto pubblico, vuol dire rendere omaggio anche a tutti coloro che in un modo o nell’altro hanno partecipato a quell’opera di solidarietà dal basso: perché è stata un’azione corale che ha coinvolto decine e decine di persone.
In occasione dell’inaugurazione del Giardino dei Giusti di Lugano, il ministro degli esteri Ignazio Cassis ha detto: «Ovviamente oggi nessuno deve ripetere ciò che ha fatto Guido Rivoir per i rifugiati cileni o Carl Lutz per gli ebrei di Budapest». «E perché no?», diciamo qui, ricordando quell’azione di solidarietà spontanea e dal basso. Non mancano certo situazioni che lo richiederebbero.