Sgravi per i più ricchi
Una proposta PLRT che alleggerirebbe le casse del Cantone, e del tutto fuori contesto
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Una proposta PLRT che alleggerirebbe le casse del Cantone, e del tutto fuori contesto
Sgravi fiscali, ancora. In Ticino è un tema che va per la maggiore, ma che denota poca, pochissima originalità. È da almeno quarant’anni, infatti, che nei Paesi cosiddetti ‘sviluppati’ si sgrava, avanzando motivi di efficienza, ma con scarse e parziali prove a supporto. Lo si fa anche fra enti pubblici, come succede con la concorrenza fiscale inter-cantonale in Svizzera. In pochi osano rimetterla in discussione, sebbene generi grave difficoltà agli stessi governi cantonali, anche a quelli che in questo gioco sono i primi della classe, vedasi Lucerna. Eppure, se qualcosa è dannoso, bisognerebbe evitarlo o perlomeno contenerlo. Non però se si tratta della ‘concorrenza’, che – in ogni sua forma – è diventata il mantra dogmatico su cui si fonda la nostra epoca.
Che poi cosa sia la concorrenza non è ancora chiaro. La spiegazione migliore resta quella di Adam Smith: una ‘mano invisibile’ che orienta l’agire egoista degli individui e ne fa scaturire il meglio per la società intera. Immagine formidabile! Da un lato perché difficile da contraddire, dato che la mano è invisibile non si può negarne l’esistenza solo perché non la si vede. Dall’altro perché il suo agire è misterioso (essendo invisibile) e se i risultati non sono positivi come si era preventivato allora è perché non si è data sufficiente possibilità alla mano di manovrare. Insomma, la mano esiste – dicono i (neo-)liberisti –, anche se non la vedete e anche se la realtà è molto meno piacevole di quanto promesso, continuate a crederci! In termini ticinesi e in ambito fiscale si declina così: è vero che dopo gli sgravi fiscali d’inizio Millennio abbiamo vissuto un tasso di disoccupazione persistentemente superiore rispetto alla media nazionale, giovani che emigrano in massa a nord delle alpi o all’estero, i salari più bassi della Svizzera e in sostanza una situazione tutt’altro che rosea, ma il motivo è che non abbiamo abbassato a sufficienza le imposte.
Pardon, le imposte sui più ricchi, che il ceto medio ormai è passato in secondo piano da quando è caduta l’Unione sovietica e non bisogna più dimostrare che l’Occidente è il blocco in cui il cittadino comune vive meglio, tanto alternativa non c’è. Dei poveri non ne parliamo nemmeno, è più facile far finta che siano tutti lazzaroni o che si possano ‘riqualificare’, senza specificare in cosa. Che poi a guardar bene, le persone effettivamente qualificate, spesso giovani, se ne vanno in massa dal Ticino, segno che il problema sta altrove. In ogni caso, quel che va fatto è sgravare i ricchi – dice il PLRT – così ne arriveranno in massa. Il perché è oscuro, oltretutto tenendo conto che in altri cantoni pagherebbero comunque meno imposte anche se la riforma passasse: infatti il Ticino non arriverebbe ai vertici dei cantoni fiscalmente più attraenti. E ancora più sospetta è la tempistica. Ci troviamo tuttora in una pandemia epocale, in cui l’intervento dello Stato ha permesso di salvare capre e cavoli, con tuttavia dei dati sul Prodotto interno lordo da profondo rosso, che dovrebbero far propendere per incrementare le entrate fiscali. Questa riforma, invece, le farebbe diminuire sicuramente sul corto termine e molto probabilmente anche sul lungo termine. Non solo, contemporaneamente a questi dati allarmanti, i listini borsistici stanno facendo segnare un record dopo l’altro, a beneficio quasi esclusivo dei più ricchi, per i quali i redditi da capitale finanziario costituiscono una parte preponderante del totale. Il risultato è un aumento delle disuguaglianze fra ricchi e poveri che verrebbero accentuate se si sgravassero ulteriormente i primi. Inoltre, i secondi sarebbero penalizzati ulteriormente nel prossimo futuro, quando si dovrà tagliare la spesa pubblica per compensare le diminuite entrate fiscali.
La proposta del PLRT è solo l’ultima di una lunga serie. La tendenza a sgravare gli alti redditi (ma non solo) prende vigore a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, con le politiche di Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher nel Regno Unito. L’Europa continentale e il resto del mondo hanno seguito a breve distanza, nel segno di quella liberalizzazione nel movimento internazionale di merci e capitali finanziari (molto meno delle persone) che fa da base alla globalizzazione economica. Anche qui, l’idea di fondo è quella della mano invisibile: dando ai ricchi più margine di manovra a livello mondiale essi investiranno i loro risparmi nella maniera più redditizia sia per loro sia – grazie alla mano – per l’intera popolazione della Terra. Lo faranno molto meglio dello Stato, quindi meglio diminuire il peso fiscale. Tuttavia, la realtà si è mostrata molto diversa, con una pressione al ribasso fortissima sui salari e in generale sui diritti dei lavoratori, sotto la minaccia di delocalizzare la produzione in Paesi in via di sviluppo, dove le condizioni di lavoro sono deleterie.
Le aziende multinazionali hanno così registrato profitti enormi, versati in buona parte agli azionisti. Due sono le conseguenze principali. La prima è che a fronte di salari reali in diminuzione sono aumentati i redditi da capitale, allargando il divario fra una minoranza di super-ricchi e il resto della società. La seconda è una tendenza verso la finanziarizzazione, che altro non è che la creazione di relazioni di indebitamento fra un attore e l’altro. Visto il crescente divario nella distribuzione dei redditi, queste relazioni di debito si creano sempre più spesso – con la mediazione del sistema bancario e finanziario – fra ricchi (prestatori) e poveri (indebitati), sotto forma di prestiti immobiliari, leasing per l’automobile, il cellulare, il televisore e così via. I debiti vanno prima o poi rimborsati, ma se il reddito è insufficiente non lo si potrà fare. Da questo meccanismo sono nate (e nasceranno) quelle crisi immobiliari e finanziarie che generano profonde recessioni economiche, come successo nel 2006 con la crisi dei subprime negli Stati Uniti, che è all’origine della Grande Crisi economica e finanziaria del 2008.
I salari al ribasso – o stagnanti ma con un aumento del costo della vita – sono solo una parte del problema. La diffusione del fenomeno della precarizzazione, cioè dell’insicurezza intrinseca del lavoro, crea situazioni di stress permanente dovute al quotidiano rischio di vedere il proprio posto di lavoro delocalizzato o, nel caso del Ticino, occupato da personale frontaliere, anch’esso peraltro vittima delle stesse perverse dinamiche globali. Ne risulta una pressione a lavorare sempre più intensamente e spesso anche oltre alle canoniche 42 ore settimanali, trascurando così altri importanti lati della vita: la famiglia, gli amici, gli interessi personali e così via, insomma quelle valvole di sfogo la cui mancanza implica livelli di pressione oltre il sopportabile, portando a esaurimenti e burn-out. Inoltre, chi è precario – soprattutto quando indipendente – è coperto in minor misura dal paracadute dello stato sociale, che è stato pensato e strutturato sul modello degli anni ’50 e ’60, ovvero l’impiego salariato a tempo pieno e a durata indeterminata, oggi una chimera per gran parte della popolazione. Ne risultano condizioni di vita di profondo malessere, incapacità di progettare, insicurezza nel presente e verso il futuro, difficoltà oggettive nel formare una famiglia e via dicendo. La condizione di precario è la realtà per un numero crescente di persone, in Ticino più che nel resto della Svizzera, ma si cerca goffamente di nasconderla utilizzando l’accattivante quanto menzognero termine di ‘flessibilità’.
Gli sgravi fiscali ai redditi più elevati si inseriscono in questo processo di deregolamentazione e di crescita delle disuguaglianze fra ricchi e poveri, i cui effetti nefasti segnano la quotidianità di molti. Limitare il dibattito alla concorrenza fiscale inter-cantonale o all’afflusso – ancora tutto da dimostrare – di residenti facoltosi è fuorviante. Il contesto è fondamentale e quello in cui viviamo ci mostra che la ricetta ‘sgravi fiscali a ricchi e imprese e liberalizzazione dei mercati’ ha avuto effetti più negativi che positivi negli ultimi quarant’anni. Anche negli Stati Uniti, da cui tutto ciò è partito, sembrano essersene accorti, come dimostra l’aliquota minima globale sull’utile delle aziende multinazionali sostenuta da Joe Biden. Non un cambio di direzione, certo, ma perlomeno un freno, seppur insufficiente. Il PLRT invece continua nella stessa, dogmatica e pericolosa inerzia.
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