Sui rimpatri degli afghani qualcuno dovrebbe scusarsi
Oltre agli errori dell'intervento diretto ci sono anche quelli nella politica dell'asilo
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Oltre agli errori dell'intervento diretto ci sono anche quelli nella politica dell'asilo
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Certo, a Kabul soprattutto, qualcosa si stava tentando di fare, erano nati fragili spazi di una libertà inedita nella storia di un paese ormai da quasi mezzo secolo in guerra e sotto dittatura: le ragazze a scuola, tolto l’obbligo del burqa, una parvenza di parlamento, la nascita di numerose radio indipendenti. Ma per il resto, inteso come il resto dell’Afghanistan, la situazione era spesso cristallizzata nelle logiche brutali del passato; progressivamente i talebani riconquistavano diverse province; capi tribù e signori della guerra rialzavano la testa; la corruzione – anche nella capitale – era dilagante. Soprattutto, l’esito finale del conflitto era segnato vista la crescente e palese volontà americana di disimpegnarsi, di “riportare i boys a casa”, come ha ribadito il presidente Joe Biden nella debole autodifesa televisiva di ieri sera.
Ma ai burocrati non bastava, e molti richiedenti l’asilo fuggiti da un paese dissestato e destinato a tempi anche peggiori venivano rimessi sugli aerei diretti in patria. Difficile ammettere il fallimento dell’intervento ormai sicuro; difficile accettare che vi fosse qualcuno in fuga dal “paradiso promesso” e irrealizzato; difficile sottoscrivere il diniego degli sforzi delle democrazie ‘avanzate’, lo spreco dei miliardi investiti, le armi regalate all’esercito più improbabile del mondo. Dunque, “tornate da dove siete arrivati”. Succedeva anche in Svizzera, dove si trovano 2’800 afghani asilanti in attesa che venga esaminata la loro richiesta, e per 130 era già in corso quella che il burocratese definisce “la fase esecutiva dell’allontanamento”. Guardando altrove: quanti sono stati per esempio i profughi afghani ammessi negli Stati Uniti dall’inizio dell’anno? Ben… 460 (dati del sito Just Security). Mentre in vent’anni di conflitto India e Pakistan ne hanno accettati tre milioni (cifra fornita dal Center for Migration Studies).
Così fino all’ultimo, fin quando i talebani non sono arrivati alla periferia di Kabul. Solo allora, in extremis, la Svizzera e altre nazioni europee, hanno deciso che i rimpatri dovevano essere sospesi. Per carità, solo ‘temporaneamente’. Proprio mentre le destre spesso al governo sbraitano che non si possono lasciare gli afghani ‘nelle mani dei criminali islamisti”. Puro esercizio retorico, ora che è definitivamente accertato che nessuno vuole ‘morire per Kabul’.
E c’è qualche paese europeo che già preannuncia la chiusura delle proprie frontiere anche ai nuovi disperati che riusciranno a espatriare. È il caso dell’Austria. Quasi certamente lo sarà anche per quei regimi illiberali del centro Europa – Ungheria, Polonia, Slovacchia eccetera – che della politica anti-immigratoria ‘costi quel che costi’ (agli altri) hanno fatto una loro bandiera identitaria, con relativo incasso elettorale. Per fortuna vi sono nazioni che almeno in questo tragico finale, e quantomeno sulla carta, decidono per l’accoglienza. Primatisti: il Canada che ha già annunciato di voler accogliere 20’000 profughi afghani; o la Scozia, che intende farsi bandiera degli ideali europei pur essendo prigioniera della Brexit di Johnson, e che promette anch’essa di voler aprire le porte ad altri 20’000.
Si dirà che comunque la Scozia si fa bella sapendo comunque di dover lottare con Londra per spuntarla, ed è improbabile che la spunti. Forse. Ma intanto gli scozzesi sono poco più della metà della popolazione svizzera. Berna, invece, tace.
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