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Aldo Sofia
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Talebani a Kabul, un blitz e i suoi misteri
• 16 Agosto 2021 – Aldo Sofia
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Sventola sul palazzo presidenziale la bandiera dell’Emirato islamico. «Ci vorranno tre mesi», avevano sentenziato gli intelligentoni della… intelligence americana. Invece sono bastate poche settimane. I nuovi/vecchi conquistatori sono di nuovo a Kabul. Senza che nemmeno vi sia stata una battaglia campale fra i talebani e un esercito nazionale assai predisposto alla resa ; senza aspettare – ultimo simbolico sfregio verso la superpotenza – il 31 agosto, data in cui l’ultimo marine del contingente statunitense doveva farsi inghiottire dal pancione di un aereo da trasporto diretto in qualche lontana base USA; e senza che si capisca bene come i pur organizzati, motivati, ma anche non così numerosi ‘studenti coranici’, siano riusciti in un blitz per tempistica degno di entrare negli annali della storia militare. E con modalità diverse da quelle attese. Più che uno ‘sfondamento’ una marcetta; più che battaglia, la convivenza nella capitale con truppe della coalizione internazionale incaricate di blindare l’aeroporto della capitale; più che il ritorno del ‘regno del terrore’, generose promesse di dialogo e di non violenza. Vagli a credere.

C’è dunque qualcosa di ineluttabile ma anche di sfuggente nel finale di questo conflitto. Che soltanto agli Stati Uniti è costato circa 2.000 miliardi di dollari in 18 anni, e più 2.400 morti, nulla se paragonato alle vittime afghane, soprattutto civili, che con i feriti si contano a centinaia di migliaia. Adesso che non c’è più, titolava un giornale, tuti danno ragione a Gino Strada. Che l’intervento occidentale aveva sempre condannato, pronosticandone il drammatico epilogo già dall’inizio. Adesso scendono in campo anche i “commentatori pompieri” dell’ultima ora, che si sprecano nell’associare lo scenario Kabul e quello della fuga dei marines da Saigon: nel ’76, con quell’elicottero a cui si aggrappavano disperati fuggiaschi locali, oggi con gente terrorizzata che corre sulle piste dell’aeroporto di Kabul sperando di poter salire su un aereo in partenza.  Come se l’inevitabile paragone non venne mai fatto (come invece fu fatto) dal momento in cui, quasi un decennio fa, risultò evidente l’inevitabile sbocco verso il fallimento della missione militare che doveva riscattare l’America della tragedia dell’11 settembre, vendicare i suoi tremila morti, svuotare l’Afghanistan dei santuari dell’Al Qaeda di Bin Laden, sradicare il fondamentalismo islamico che coi Mujahiddin (generosamente finanziati da Washington attraverso l’ambiguo alleato Pakistan) avevano sconfitto anche la potenza militare dell’URSS, nel 1989, pilotando l’impero al sovietico collasso.

Adesso, in qualche modo, si torna alla casella di partenza. E al fanatico oscurantismo dei ritrovati vincitori. Che subito promettono di fondare un ‘emirato islamico’. Anche se – e lo si è poco sottolineato – quando si parla di talebani sarebbe più corretto parlare di un grumo di combattenti dove, certo, gli studenti coranici eredi dell’ex Mullah Omar rappresentano il nodo centrale, ma ora supportato da signori della guerra, capi etnici capi clan  capi tribù,  tutto un mondo che si era adattato per convenienza all’illusorio esperimento ‘democratico’ (la solita retorica e illusione occidentale) e che ora si ricompone in un mosaico che in realtà hanno sempre saputo si sarebbe riproposto. In più, una nuova generazione di nuovi combattenti, che avrebbero l’Iran teocratico come modello. Con sviluppi ancora tutti da capire. Anche perché questa volta è un po’ diverso lo scenario attorno al tragico quadro afghano, in cui non va scordata la presenza dell’Isis, alla ricerca di una rivincita. Una recente foto conferma le novità in modo plastico: insieme, il ministro cinese degli esteri e un inviato talebano, ripresi al termine di un tranquillo negoziato, in cui il primo ha rinnovato l’impegno a inserire il paese confinante (anche se per poche decine di km di frontiera comune) nelle infrastrutture della “via della seta”, e il secondo a rassicurare Pechino sulla determinazione degli islamisti a non accogliere e fomentare la resistenza degli uiguri musulmani schiavizzati dalla Cina.

Per dire che ‘l’ordine talebano’ –  ben  descritto nel successivo articolo offerto oggi da “Naufraghi” – può essere in qualche modo favorito, in cambio di reciproche concessioni, da chi non ha interesse che il paese diventi incontrollabile: la Cina, dunque, ma anche la Russia sempre attenta ai fermenti delle sue regioni orientali a maggioranza musulmana, e anche l’Iran, che ha già troppe rogne per pensare di aggiungervi il fraterno soccorso a un Afghanistan nel caos e senza più americani da mettere in difficoltà. Non è probabilmente un caso se i capi degli  “studenti coranici” sembrano mirare a una vittoria senza trionfi, invitano i propri adepti ad evitare i massacri, promettono amnistie ai soldati regolari (prima immediatamente sgozzati o fucilati). Difficile, come detto, crederci visti i precedenti, soprattutto pensando alla condizione delle donne costrette alla sudditanza più assoluta e brutale. Ma questa è musica, incertissima, del futuro. Sta di fatto che, nella reazione all’11 settembre, al santuario americano per la prima volta violato, si presenta un bilancio che è doppiamente fallimentare: l’abbandono dell’Afghanistan lasciato comunque pericolosamente in bilico, e quello di un intervento in Iraq che ha fatto implodere le varie componenti (sciiti, sunniti, curdi)  del paese mesopotamico, consegnandolo in gran parte all’influenza dell’Iran.  Non ne ha responsabilità dirette Joe Biden, oggi bersagliato come liquidatore dell’impegno americano in Afghanistan. L’immagine degli Stati Uniti esce comunque a pezzi dagli errori post 11 settembre. Un ventennio, due storiche sconfitte.






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