Svizzera, il miracolo dell’integrazione
Il moderno Stato federale è nato da una guerra civile 175 anni fa. Ancora oggi deve il suo successo alla volontà di dar voce a sempre più fasce di popolazione. E presto anche agli stranieri?
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Il moderno Stato federale è nato da una guerra civile 175 anni fa. Ancora oggi deve il suo successo alla volontà di dar voce a sempre più fasce di popolazione. E presto anche agli stranieri?
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Il moderno Stato federale è nato da una guerra civile 175 anni fa. Ancora oggi deve il suo successo alla volontà di dar voce a sempre più fasce di popolazione. E presto anche agli stranieri?
Di Marc Tribelhorn, Neue Zürcher Zeitung
Si potrebbe anche sorridere di questa bizzarria di un popolo viziato. Gli svizzeri, unici al mondo, stanno attualmente discutendo se introdurre un secondo giorno festivo. Chi ha questi problemi, verrebbe da dire, se la cava egregiamente in tempi di guerre, di cambiamenti climatici, di crisi economica.
Il Parlamento federale deve infatti decidere se in futuro, oltre al 1° agosto 1291, data della Carta federale e del mitico giuramento del Grütli, si dovrà onorare anche il 12 settembre 1848, giorno in cui il moderno Stato federale liberale è diventato realtà. Heinz Siegenthaler, consigliere nazionale del Centro, giustifica la sua proposta affermando che quel giorno è stato creato un “gioiello democratico”.
Non c’è dubbio che l’atto rivoluzionario del 1848, di cui ricorre il 175° anniversario, sia di fondamentale importanza per la storia della Svizzera. Nel bel mezzo dell’Europa monarchica, dopo una breve guerra civile, fu creato un sistema politico democratico federale che dura fino ad oggi, con un Consiglio nazionale, un Consiglio degli Stati, un Consiglio federale e un Tribunale federale, oltre all’organizzazione di un mercato interno elvetico e all’affermazione di molte nuove libertà.
Ma la proposta di Siegenthaler, animata da buone intenzioni, non troverà probabilmente una maggioranza nel Consiglio degli Stati, che deciderà in autunno come seconda camera dopo il sì del Consiglio nazionale. Anche il Consiglio federale raccomanda di respingerla: da un lato, i costi economici di un secondo giorno di festa senza lavoro sarebbero “considerevoli” (e si ricorda che un tempo l’elettorato svizzero non voleva saperne dell’iniziativa “Sei settimane di vacanza per tutti”). D’altra parte, il 1° agosto, ampiamente accettato dalla popolazione, non dovrebbe essere messo di fronte alla concorrenza di un nuovo e analogo giorno festivo.
Il dibattito non è privo di una certa ironia – o, per meglio dire, di dimenticanza della storia. Il fatto che il 1° agosto sia un giorno festivo ha molto a che fare con il 1848. E questo, a sua volta, è un esempio di ciò che rende lo Stato svizzero così vincente.
Il 1° agosto è stato celebrato per la prima volta nel 1891. Alla fine del XIX secolo, gli storici dei nuovi Stati nazionali cercavano di stabilire radici che risalissero il più possibile al Medioevo, possibilmente con prove documentali. Così, nel caso della Svizzera, il Bundesbrief del 1291 – un’alleanza dei cantoni originari di Uri, Svitto e Untervaldo – che in precedenza non aveva avuto alcun ruolo nella storia della Confederazione come testo fondativo, divenne un documento simile a una Costituzione grazie all’opera di storici ingegnosi. Certo, all’inizio non mancarono le critiche. Si disse che la festa non era “un fiore naturale”, ma “una pianta da interno delle stanze degli studiosi e dei funzionari”. Ma da allora il 1° agosto fu celebrato con devozione.
L’élite liberale che ha costruito e dominato il moderno Stato federale aveva però in mente ancora di più per dar vita ad nuova narrazione nazionale: con il recupero, tutto ideologico, delle origini dello Stato nella Svizzera centrale, i cattolico-conservatori, usciti sconfitti dalla guerra civile, avevano modo di vedersi riconciliati dentro il nuovo sistema statale. Non è un caso che nel 1891 sia stato concesso loro anche il primo seggio in Consiglio federale.
Non si trattava, allora, di una cosa scontata. Quando oggi i politici parlano del “1848”, spesso dipingono un quadro idealizzato della realtà costituzionale dell’epoca. Come se il modello di Stato tanto apprezzato, con i suoi limiti di potere e i diritti di codeterminazione, fosse esistito fin dall’inizio e a quel punto solo formalizzato. La verità è che lo Stato federale del 1848 fu davvero un’opera pionieristica e l’unica rivoluzione civile di quegli anni in Europa ad essere coronata da un successo duraturo. Ma all’epoca questa meraviglia non fu semplicemente osannata, soprattutto perché ancora contemplava forme di coercizione contro i conservatori cattolici sconfitti. E gli strumenti di democrazia diretta per i cittadini (le donne erano ben lungi dall’ avere un ruolo politico) non esistevano ancora: il referendum facoltativo in materia di leggi federali arrivò solo con la revisione costituzionale del 1874; il diritto di iniziativa solo nel 1891 – proprio come il 1° agosto.
In breve, l'”invenzione” di questa festività e quindi la riqualificazione della “Svizzera originale” furono, analogamente ai progressivi “adattamenti” della Costituzione e all’attribuzione di un seggio nel governo nazionale, un mezzo intelligente e riuscito per integrare politicamente gli ex perdenti nel sistema statale.
Da lì via, nel tempo, chiunque guardi ai 175 anni dello Stato federale riconoscerà come un grande risultato il progressivo conferimento di diritti a un numero sempre maggiore di gruppi di popolazione. Solo così il piccolo Stato tanto eterogeneo ha potuto garantirsi il proprio futuro: la Willensnation ( la“nazione della volontà”) è stata ed è anche una nazione fondata sulla partecipazione.
Negli anni precedenti all’entrata in governo del primo conservatore, la libertà di residenza e di religione era stata concessa anche ai non cristiani, soprattutto agli ebrei. Agli inizi del Novecento, il forte rafforzamento del movimento operaio anche in Svizzera ha portato per la prima volta, nel 1919, ad un’elezione nazionale con il sistema proporzionale (una pratica già sperimentata su base cantonale). In quell’anno, pochi mesi dopo lo sciopero generale, che costituì la più grande crisi dello Stato federale fino a quel momento, ciò si tradusse in un massiccio guadagno di seggi per la sinistra nel Consiglio nazionale. E anche se lo scontro politico fra i fronti, borghese e operaio, rimase per anni molto duro e aspro si prese gradualmente la strada dell’integrazione della socialdemocrazia nel Consiglio federale: un passo che si realizzò infine durante la seconda guerra mondiale. È poi dal 1959 che si applica la cosiddetta “formula magica”: i partiti più importanti sono rappresentati nel governo nazionale in base alla loro forza elettorale.
Ma fino a quel momento la maggioranza della popolazione svizzera non aveva ancora diritti politici: le donne erano escluse dalle elezioni e dal voto. Si diceva, papale papale, che non dovevano impegnarsi in politica perché non ne capivano nulla. Dopo decenni di lotte per essere riconosciute come membri a pieno titolo della società, nel 1971 le donne hanno ottenuto il diritto di voto e di eleggibilità. E dal 1981 la parità tra uomini e donne è stata sancita dalla Costituzione federale.
A posteriori, ci si interroga ancora su quelli che sono stati comunque gli enormi deficit democratici della Svizzera, che ha impiegato spesso più tempo di altri Paesi per adattarsi alla mutata realtà politica e sociale. E oggi, dopo che comunque il fattore integrativo ha saputo affinare le nostre istituzioni democratiche, la domanda sorge spontanea: l’integrazione politica è giunta al capolinea?
Secondo i dati dell’Ufficio federale di statistica poco meno del 40% della popolazione residente in modo permanente, di età pari o superiore ai 15 anni, ha un background migratorio. Circa il 25% non possiede un passaporto rossocrociato. Di questi, uno su tre è nato qui o vive qui da almeno un quarto di secolo. Non vogliono essere naturalizzati o la procedura è resa inutilmente difficile? Entrambe le cose appaiono negative per uno Stato che si dichiara democratico e i cui cittadini hanno più voce in capitolo rispetto a qualsiasi altra parte del mondo. Varrebbe la pena di ricordare che quanto più le decisioni sono ampiamente sostenute dalla popolazione, tanto più sono legittime.
La Svizzera ha la più alta percentuale di stranieri in Europa (accanto al Lussemburgo). A differenza di altre realtà a noi vicine o affini (si pensi a Germania, Francia o Svezia), da noi l’immigrazione non ha portato ad aree di clan o di “ghetti” di stranieri. La natura ridotta del nostro territorio e il sistema di istruzione duale hanno finora garantito una notevole integrazione nella società e nel mercato del lavoro. Anche l’elevata immigrazione degli ultimi decenni, che certamente sta causando problemi e provocando non poca pressione sulle infrastrutture e sulla politica, sembra comunque in grado di essere gestita: centinaia di migliaia di professionisti immigrati pagano le tasse, sono coinvolti nel loro luogo di residenza e nelle associazioni. Eppure, per ora, non possono avere voce in capitolo. Per loro non vale il principio liberale del “no taxation without representation”.
Recentemente è stata lanciata una “iniziativa per la democrazia” per cambiare questa situazione. Essa richiede un diritto di base alla naturalizzazione. Chiunque viva regolarmente nel Paese per cinque anni dovrebbe ora avere diritto a un passaporto rossocrociato e poter essere naturalizzato “su richiesta”. Questa idea, alquanto radicale, non ha per il momento alcuna possibilità di vedersi applicata. Del resto forse è vero che prima di introdurre a livello di Costituzione federale un meccanismo automatico di integrazione, vanno piuttosto perseguite forme pratiche di integrazione professionale e sociale che diano indicazioni per il futuro; altrimenti c’è il rischio che il passaporto svizzero venga “svenduto”, come i protettori della patria politica hanno sempre temuto. Ma la direzione è quella giusta.
Procedure semplificate e uniformi a livello nazionale sono attese da tempo, soprattutto per gli stranieri di seconda generazione, quelli che hanno studiato qui. E la partecipazione politica degli stranieri con permesso di soggiorno permanente deve essere promossa a livello comunale. Più di 600 comuni, soprattutto nella Svizzera francese, ma anche nell’Appenzello Esterno, ad esempio, permettono già ai loro residenti stranieri di avere voce in capitolo, senza alcun problema. In ogni caso, partecipano solo coloro che lo desiderano e sono disposti a integrarsi.
Nell’anno dell’anniversario del 1848 sarebbe quindi più produttivo e lungimirante discutere di questioni di partecipazione democratica, invece che del senso e dell’assurdità di un secondo giorno festivo. Soprattutto il 1° agosto.
Traduzione a cura della redazione
Nell’immagine: una scena della versione teatrale del film “Il fabbricasvizzeri”
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