Ricordando Silvana Abruzzese Lattmann
Una donna e autrice che nella sua lunga vita ha attraversato i momenti più bui ma è rimasta sempre testimone dell’amore per la vita
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Una donna e autrice che nella sua lunga vita ha attraversato i momenti più bui ma è rimasta sempre testimone dell’amore per la vita
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Una donna e autrice che nella sua lunga vita ha attraversato i momenti più bui ma è rimasta sempre testimone dell’amore per la vita
«Cosa preferisci, Martini bianco o rosso?» È con questa domanda che Silvana mi accolse per la prima volta nel suo appartamento. Abitava nel cuore della città vecchia di Zurigo, a due passi dall’Università che frequentavo. Avevo scoperto la sua opera solo poche settimane prime, in un corso dedicato al romanzo autobiografico nel Novecento italiano. Lei accettò subito di incontrarmi e di rispondere alle mie curiosità sulla sua autobiografia.
Appoggiò il bicchiere di Martini proprio accanto alla mia copia di Nata il 1918 (2017). «Mi ricordo bene di questa fotografia» disse riferendosi a quella che c’era in copertina. La ritraeva quando aveva poco più di vent’anni, era una ragazza bellissima. La stessa bellezza la vedevo nella donna che avevo di fronte e che stava per compiere cent’anni.
I suoi occhi riflettevano una vita lunga e intensa, segnata da gioie e dolori, da successi e perdite. Nata a Napoli nel 1918, la piccola Silvana Abruzzese affrontò la morte prematura del padre e i continui trasferimenti della famiglia in tutta la penisola italiana. Studiò biologia a Roma e a Genova e sposò Michele Sgarlata che fu costretto ad arruolarsi subito dopo la laurea e che perse la vita durante la Seconda guerra mondiale, senza vedere il figlio venire alla luce. Dopo la guerra lei insegnò a Milano e fu attiva alla stazione di biologia marina a Napoli. Nel 1954 si unì a Charles Lattmann, di cui assunse il cognome, diventando cittadina svizzera e trasferendosi prima a San Gallo e poi a Zurigo.
Mentre Silvana raccontava, mi accorsi che la sua voce, come la sua penna, era quella di una «testimone di quasi un secolo», mossa dal dovere di ricordare, sempre. Un dovere incessante di «fare ordine nel disordine», di ricercare «criteri dell’ordinamento» per districare il «filo della memoria». All’interno della sua autobiografia, che ricopre l’arco temporale dal 1918 al 1942, l’autrice ordina i propri ricordi in «scatole di memorie» che fa corrispondere ai capitoli. Traduce la propria esperienza di vita in una scrittura, in terza persona singolare, fatta di prosa, poesia, ritagli di giornale e corrispondenza epistolare. Le citazioni poetiche sono tratte da opere che precedono l’autobiografia, quali Le storie di Ariano (1981), Fessura (1983), Fuoco e memoria (2002), Brunngasse 8 (2011) e opere non citate direttamente, quali Il viaggio. Poesie (1987), La favola del poeta, della principessa, della parola e del gerundio (1989), Malâkut (1996), La quadratura del cerchio. Tre racconti (2014).
Silvana riempì i nostri bicchieri con un altro Martini bianco. «Guarda là» mi disse indicando la parete del soggiorno alle mie spalle. Come capita durante la lettura, anche durante l’ascolto delle sue memorie, le storie si impastano con la Storia. Feci scorrere lo sguardo sugli affreschi portati alla luce durante i lavori di restauro dell’appartamento e mi sembrava di essere in una sala cinematografica: Silvana era la voce fuori campo e io la spettatrice. Quelle immagini della Storia testimoniavano l’esistenza di una benestante famiglia ebrea e della sua terribile fine, vittima di un’accusa ingiusta. Così, quel piccolo appartamento si rivelò appartenere a un passato lontano lontano: l’autrice non esitò a condividerne la testimonianza in un libro che prese il titolo dalla via zurighese, Brunngasse 8 (2011): «Ora, da quando abito l’appartamento, per la storia sanguinosa che vi è stata scoperta, sono entrata nel mondo faticoso del rapporto con la violenza […]». La necessità di collegare l’esperienza personale con quella collettiva, in particolare la violenza umana, non è quindi una necessità forzata, ma un’esigenza morale di soddisfare il senso di responsabilità di chi è ed è stato testimone, almeno fino a quando le circostanze lo permettono. «Alla Brunngasse la luce consueta e fioca del giorno cade come sempre sugli affreschi, ma la carta dove scrivo si stropiccia o vi si formano disegni senza senso. […] Forse si deve lasciare illuminare il luogo da se stesso, dalla potenza che possiede senza intervenire oltre». Quel luogo zurighese, dunque, diventa per l’autrice dimora di storia individuale e collettiva, in cui lei toglie il «coperchio» alle sue «scatole di memorie» e riavvolge il «filo della memoria», seduta al suo fedele «scrittoio».
I miei incontri con Silvana continuarono anche dopo quel corso universitario che me l’aveva fatta conoscere. Andare a trovarla impreziosiva le mie giornate e mi permetteva persino di abitare lo spazio per me più intimo di chi si scrive, lo studio. Un pomeriggio, proprio lì, lei mi comunicò che avrebbe dovuto lasciare la sua amata Brunngasse. Me lo disse accarezzando con gli occhi la sua ricca biblioteca: «Non mi è permesso portare tutti questi libri nella casa di riposo». Non feci in tempo a pensare a cosa dirle che fu lei a consolare me: «Questo posto deve diventare un museo». Un’affermazione generata, ancora una volta, dalla volontà di Silvana di conservare la memoria di un passato che ci appartiene. Oggi l’appartamento è per davvero un museo ed è gratuitamente accessibile al pubblico. Un appartamento raccontato persino in un documentario, Brunngasse 8 (2022), a cui l’autrice ha partecipato.
Dopo il trasloco fui invitata a pranzo da Silvana nella sua nuova sistemazione, a Rüschlikon. Era riuscita a portare con sé solo una parte dei suoi libri, dei suoi dipinti e delle sue fotografie, ma aveva ancora tutta la sua eleganza. Mi mostrò sorridente la vista sul lago su cui si affacciava la sua stanza e mi fece fare un giro nella casa di riposo che era ancora in costruzione. L’8 novembre 2018 lei festeggiò il suo secolo di vita, avendo alle spalle tre Premi Schiller (1983, 1984, 1997) e l’amore dei suoi cari attorno a sé. Ebbi l’onore di essere presente anche io e di mantenere il nostro rapporto nel tempo.
L’ultimo bagliore depositato nella «scatola» dei miei ricordi con Silvana fu una domanda inaspettata: «Ti sei mai innamorata?». Fu lei a colmare il mio silenzio d’imbarazzo: «Non devi vergognarti di essere innamorata della vita».
Silvana Lattmann lo è stata per ben 104 anni.
Nell’immagine: Silvana Abruzzese Lattmann
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