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Uber files: come volevasi dimostrare
Naufragi

Uber files: come volevasi dimostrare

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Lelio Demichelis
Lelio Demichelis
Uber files: come volevasi dimostrare
• 15 Luglio 2022 – Lelio Demichelis

Gli Uber files – diffusi pochi giorni fa e riguardanti le azioni di lobbying dell’impresa americana di trasporto privato (e non solo) – hanno riportato l’attenzione sul capitalismo delle piattaforme e sui modi con cui questo ultimo capitalismo ipertecnologico – che è anche un capitalismo da robber barons – si è imposto sulle nostre vite come un dato di fatto ineluttabile e meraviglioso perché appunto ipertecnologico. 

Doveva essere una delle massime e più virtuose espressioni della nuova economia basata sulle piattaforme digitali – Uber. Era considerata il nuovo per eccellenza perché – testuale, detto da un docente di una importante Business School – “Uber e l’uberizzazione del lavoro sono il futuro e il futuro non si può e non si deve fermare”. Poi sono arrivati i primi problemi e le prime forme di organizzazione sindacale e di conflitto degli autisti di Uber, denunciando il fatto che Uber cercasse in tutti i modi di aggirare le norme sul lavoro considerando i suoi dipendenti di fatto – perché tali sono, in quanto organizzati, comandati e controllati dalla piattaforma – come lavoratori autonomi, liberi e indipendenti. Con grande vantaggio per la piattaforma, che non possiede nulla a parte la piattaforma, che però è il mezzo di connessione del lavoro e quindi il mezzo di produzione di profitto, riducendo i costi per sé e scaricandoli tutti sul lavoratore; con grande svantaggio appunto per i lavoratori, privati di ogni tutela e diritto, ma portati a credersi liberi imprenditori di se stessi (è il mantra dell’ideologia neoliberale; è l’uberizzazione del lavoro) anche se dipendenti della e subordinati alla piattaforma. Che poi è solo la nuova forma della vecchia fabbrica fordista-taylorista.

Agli inizi, molti tribunali hanno dato ragione a Uber: i suoi non sono dipendenti, ma collaboratori esterni, lavoratori autonomi e indipendenti, piccoli imprenditori di se stessi. Poi anche le magistrature  – inglesi, italiane, spagnole, per citarne alcune – hanno aperto gli occhi, rovesciando le loro prime interpretazioni e smascherando il trucco. Non solo: lo scorso autunno si è scoperto anche – Tribunale di Milano – che Uber-Eats, tramite società di intermediazione, praticava addirittura il caporalato sfruttando i propri riders come quasi-schiavi. 

Anche in Svizzera, Uber – quella degli autisti di finti taxi che fanno concorrenza sleale ai veri taxi – è stata oggetto di decisioni della magistratura e poi dei Cantoni. Lo scorso giugno un accordo è stato firmato fra Uber e il Canton Ginevra. Gli autisti di Uber potranno così tornare al lavoro, dopo che era stato sospeso in seguito a una sentenza del Tribunale federale che aveva correttamente sancito il loro status di lavoratori (appunto) dipendenti e subordinati (con tutto ciò che ne consegue) e non di lavoratori (finto) autonomi. Fine della concorrenza sleale di Uber, fine del trucco capitalistico e neoliberale degli imprenditori di se stessi: la maschera è caduta, ma quanto tempo c’è voluto per riconoscere una verità lapalissiana…

E perché sia occorso tanto tempo lo dimostrano appunto gli Uber files dei giorni scorsi, frutto di una benemerita inchiesta svolta dal Consorzio internazionale di giornalisti investigativi che ha pubblicato le comunicazioni interne – più di centomila documenti – della startup Usa tra il 2013 e il 2017 e utili per svelare quale sia appunto l’essenza del capitale e dei suoi modi di operare. Digitale o meno che sia. 

Cosa emerge infatti dalla prima parte pubblicata degli Uber files? Lavoratori sottopagati, controllati dalla piattaforma, licenziati senza giustificazione, ma anche barriere informatiche ai controlli delle forze dell’ordine, con il contorno dei guadagni nascosti negli opportuni paradisi fiscali – perché anche Uber, come tutto il capitalismo, digitale o meno  che sia, ama i profitti e odia le tasse. E per affermarsi Uber ha cercato il sostegno degli oligarchi russi, dell’allora vicepresidente Usa Joe Biden e, in Europa, in particolare, di Macron. Per ottenere consenso alla sua azione di concorrenza sleale, per Uber ogni mezzo era buono. Travis Kalanick, uno dei co-fondatori di Uber, ammetteva: “Siamo fottutamente illegali” – ma in realtà, aggiungiamo, analogamente si sono mossi tutti gli oligarchi della Silicon Valley in questi ultimi trent’anni. E quando in Europa iniziava appunto a crescere la reazione dei tassisti contro Uber, Kalanick esortava i suoi manager a organizzare contromanifestazioni mandando in piazza gli autisti in nome del (sic!) diritto al lavoro e manifestando contro la casta dei tassisti. Accettando anche il rischio di possibili violenze di piazza, perché “ne vale la pena. La violenza garantisce il successo”. Quanto alla Francia, emergerebbe il ruolo di Macron (prima di diventare Presidente), come alleato se non promotore della piattaforma americana. Uber France ha definito i contatti con Macron “normale amministrazione”, ma per France Insoumise si è trattato di un saccheggio del Paese, con Macron nel ruolo di “consigliere e ministro di Hollande e lobbista per la multinazionale che puntava a una persistente deregulation del diritto del lavoro”.

In realtà ciò che emerge dagli Uber files non è nuovo (anche se porta le prove documentali). Se andiamo a un libro del 2016, La sharing economy, di Vincenzo Comito (Edizioni Ediesse), leggiamo infatti: “La società è impegnata in una forte politica di lobbying. […] In ogni paese in cui cerca di insediarsi, il gruppo cerca di arruolare al proprio servizio in particolare politici e giuristi di alto livello. Su di un altro piano” – quello che noi definiremmo della propaganda – continuava Comito, “l’impresa racconta sempre la stessa storia, quella di essere una start-up fortemente innovativa che sconfigge il corporativismo dei taxi. E molto spesso i media si fanno portavoce di tale idea”. Di più e peggio: “Molto di frequente Uber cerca di avviare la sua attività in un paese senza chiedere i permessi previsti dalle leggi, sperando così di forzare la mano ai decisori; i responsabili di Uber seguono infatti il motto: meglio essere perdonati dopo, che chiedere il permesso prima”. Uber “si presenta poi non come una società di trasporto, quale essa è nella sostanza, ma come una semplice piattaforma tecnologica che mette in relazione autisti e clienti, un semplice intermediario remunerato con una commissione sul prezzo di ogni viaggio”.

Ovvero, ciò che appare dagli Uber files è storia antica – è la storia infinita della lotta del capitale contro i diritti delle persone e dei lavoratori, contro la legge e le Costituzioni, ma soprattutto della collusione oligarchica tra capitale & politica (e anche la Svizzera ha molto da riflettere su questo); una storia squallidissima e vergognosa – mascherata dal benessere che il capitale sembra produrre per tutti noi, mentre la crisi climatica ci dice invece il contrario – che inizia in realtà con la rivoluzione industriale, tre secoli fa. È la storia del capitalismo, più che della sola Uber. Già, perché di imprenditori come Adriano Olivetti – fortemente osteggiato infatti dai suoi colleghi di allora – ce n’è stato uno solo. Eccezione che conferma la regola, digitale o meno che sia.

Riusciranno allora questi Uber files a farci cambiare idea sulle nuove tecnologie e sulle piattaforme, smascherandone l’apparente nuovo, l’apparente cambio di paradigma che genererebbero, facendoci finalmente comprendere che nulla è cambiato rispetto al passato, a parte il digitale? Ne dubitiamo – ormai siamo tutti così strafatti di propaganda tecno-capitalista da farci credere davvero che non ci sono alternative! – ma l’ottimismo della volontà ci dice che possiamo (dovremmo) farlo. 






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Lelio Demichelis
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