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Il paradosso Assange
Naufragi

Il paradosso Assange

Presentato il ricorso presso la Corte Suprema inglese contro l’estradizione verso gli Stati Uniti del fondatore di Wikileaks. Ma, in realtà, chi è che lo vuole in prigione?


Riccardo Bagnato
Riccardo Bagnato
Il paradosso Assange
• 13 Luglio 2022 – Riccardo Bagnato

Nel periodo elettorale i contributi di candidate e candidati sono benvenuti sulla nostra zattera secondo queste regole

I legali del fondatore di Wikileaks lo avevano anticipato il 17 giugno, il giorno in cui la Home Secretary britannica, Priti Patel, aveva approvato senza sorprese l’estradizione di Julian Assange verso gli Stati Uniti. Gli avvocati della difesa avevano 14 giorni per depositare presso la Corte Suprema il ricorso e il 2 luglio lo hanno fatto.

Ora spetterà alla massima e ultima istanza britannica decidere se entrare in materia. In caso contrario toccherà alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo.

Morale: jusqu’ici tout va bien, insomma. O quasi. Almeno così si esprimeva il narratore del film «La Haine» (1995), in cui si racconta la storia di un uomo che cade dal 50esimo piano di un edificio e che, nel lungo precipitare, si ripete senza sosta: jusqu’ici tout va bien, fin qui tutto bene.

D’altra parte quello che conta non è la caduta, ma l’atterraggio. E per ora, per quanto doloroso sia il caso Assange, siamo ancora nella fase della caduta, una lunga e per molti versi inspiegabile caduta che dura da oltre dieci anni.

Ovvero dal 2012, da quando il fondatore di Wikileaks si è rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra per evitare l’estradizione. E poi dal 2019, quando Assange è stato arrestato e rinchiuso in un carcere di massima sicurezza vicino alla City in attesa delle decisioni della giustizia britannica sulla richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti.

L’accusa di Washingotn è quella di cospirazione e spionaggio e si basa sul’«Espionage Act». Una legge federale approvata il 15 giugno 1917, poco dopo l’entrata degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale e usata per la prima volta in questo caso contro un cittadino straniero. Wikileaks, di cui l’australiano Assange è il fondatore, sarebbe infatti colpevole di aver reso pubblici migliaia di documenti top secret dell’esercito statunitense sulla guerra in Afghanistan e in Iraq. Negli Stati Uniti lo aspetterebbero 175 anni di prigione.

Da anni i difensori cercano di far capire all’opinione pubblica e ai giudici che il caso Assange potrebbe diventare un precedente pericoloso per giornalisti e giornalismo e più in generale per la libertà di espressione. Se le rivelazioni di Julian Assange portassero all’estradizione del fondatore di Wikileaks verso gli Stati Uniti, allora in pochi rischieranno di seguire l’esempio. Il caso Assange è dunque anzitutto un caso politico. Un monito.

Tutto vero. Tutto, pericolosamente, vero. Proviamo, però, per un momento a capovolgere il ragionamento.

Se è vero che l’estradizione di Julian Assange sarebbe un pessimo segnale per la libertà di stampa, viceversa, se non fosse estradato e vincesse la causa, potrebbe portare a una ripresa senza precedenti di fughe di notizie, di scandali, di verità scomode squadernate sui giornali e sul Web, insomma, il vaso di Pandora verrebbe riaperto. Decine o forse centinaia di istituzioni, organizzazioni internazionali come ad esempio l’ONU stessa o multinazionali potrebbero diventare oggetto di pesanti accuse per mezzo stampa o via Internet sulla scia di documenti confidenziali da verificare.

La domanda allora è: siamo sicuri di essere pronti ad affrontare queste verità? E’ pronta l’opinione pubblica a ricevere informazioni che metterebbero inevitabilmente in discussione alcuni pilastri del nostro way of life? L’informazione sarebbe in grado di stare dietro al ritmo delle rivelazioni, rendendole comprensibili e verificandole di volta in volta? Come reagirebbero accusati e potenziali tali?

Da cui si ricava un’ultima e fondamentale domanda: chi vuole davvero vedere Julian Assange marcire in galera per 175 anni? Il governo di Washington? Il governo inglese orfano di premier? Siamo sicuri che siano solo loro i «cattivi»? O non sussiste forse una sostanziale, diffusa e tacita complicità nell’opinione pubblica che vorrebbe dimenticarsi il fondatore di Wikileaks per sempre dietro le sbarre?

Cui prodest? A chi giova, in realtà, tenere chiuso il vaso di Pandora? E buttare via la chiave? Di fronte a un tale paradosso, se così possiamo definirlo: chi di noi può dichiararsi in realtà complice e chi viceversa un sostenitore?






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