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• 25 Febbraio 2022 – Redazione

Di Lorenzo Erroi

C’è la stagista Simona che sognava la Fashion Valley, ma invece che in valle è finita in miniera: “Ho lavorato anche ventisei ore di continuo”, “la tua paga è che devi essere felice di avere un lavoro e di scriverlo nel curriculum, quella è la tua paga”; “poi o sei sempre troppo giovane o sei troppo vecchia, cercano una stagista ma con dieci anni di esperienza”. C’è Antonio che faceva l’agente di sicurezza vivendo nell’insicurezza: “Non potevo organizzare un’uscita con i bambini. Con la moglie, magari ti organizzavi, i bambini erano contenti, poi arrivava la chiamata e dovevi andare a lavorare”. C’è Claudio che è finito nelle maglie del ‘welfare to work’: “Non è possibile che tu assumi dalla disoccupazione me e mi tieni un anno al 50%, dopodiché mi licenzi, mi rimandi in disoccupazione, ma prendi un’altra persona dalla disoccupazione”. Poi ci sono Leonardo, ciclofattorino pagato a cottimo, il cuoco ultracinquantenne Omar, i cui datori di lavoro truccano orari di lavoro massacranti, e la grafica Alessia, che dai clienti si sente dire “fammi un logo e ti offro una cena” perché “tanto ci metti poco, è un disegnino”.

I loro nomi sono di fantasia, per tutelarli dalla ferocia di certi padroni delle ferriere, ma la loro voce è reale: queste e numerose altre testimonianze ci parlano dal saggio ‘La gratuità si paga’, pubblicato per Casagrande dagli economisti Supsi Spartaco Greppi e Christian Marazzi e dal sociologo Samuele Cavalli, collaboratore dell’Unione sindacale svizzera. Un’opera seminale, perché sviluppa nuovi strumenti di indagine e contribuisce a sviluppare una tassonomia di fenomeni spesso impervi alle statistiche: stage e straordinari non pagati, lavoretti come ‘controprestazione’ all’indennità di disoccupazione, ruoli in cui è richiesta la disponibilità per turni lunghissimi e magari si paga solo la ‘corsa’, come nel caso di parecchi rider. «L’approccio co-disciplinare, l’accostamento dell’analisi economica alla ricerca per così dire ‘etnografica’, ci ha permesso di scoprire un mondo che è l’opposto del lavoro a titolo di volontariato – con la sua valenza etica e sociale – e potremmo piuttosto definire ‘gratuità coatta’», ci spiega Christian Marazzi. Ecco allora che si riesce ad esempio a scorgere, dietro all’annoso fenomeno dell’aumento di impieghi a tempo parziale, la realtà di straordinari non riconosciuti; mentre la tecnologia e il precariato permettono di spingere il lavoro in «una sorta di dimensione on demand, mirata a ridurre i costi e spremere la produttività, dove la prestazione riconosciuta è solo quella viva»: la consegna, il tempo di collegamento passato a picchiar sulla tastiera, la telefonata col cliente.

‘Capitalismo estrattivo’

C’entra in effetti la tecnologia: app e algoritimi riorganizzano interi settori e fanno emergere nuove forme di vassallaggio digitale, ad esempio sulle piattaforme di ‘crowdworking’ in cui ciascuno può svolgere piccole prestazioni in remoto, magari per un committente dall’altra parte del mondo. La tecnologia di per sé, però, è solo uno strumento e non sarebbe corretto demonizzarla a priori: a trasformarla in arma, secondo Marazzi, è «questa nuova forma di capitalismo estrattivo che ‘succhia’ valore da ogni momento della nostra vita, perfino dai dati che produciamo online. Quante cose che un tempo richiedevano un lavoro salariato ora sono confinate a nostre prestazioni gratuite? Si pensi anche solo alla stampa di una carta d’imbarco o all’ordine di un qualsiasi prodotto. L’approccio economico che ne emerge è chiaro: mettere la vita al lavoro».

La rivendicazione dei diritti negati al lavoro gratuito, spiega Marazzi, «ha una lunga storia, che inizia con le richieste di remunerazione per i lavori domestici avanzate dalle femministe negli anni ’70. Ora però il fenomeno sta acquisendo una dimensione ancora più invasiva». Un altro episodio che «ha fatto molto discutere, risvegliando qualche coscienza, riguardò l’Expo 2015 a Milano: con l’accordo dei principali sindacati italiani, ai giovani venivano proposti stage non pagati, forti del fatto che avrebbero abbellito il curriculum» (in realtà, molti studi internazionali dimostrano che questo tipo di esperienze non aumenta in modo significativo le probabilità di trovare poi un buon lavoro).

Diritto alla disconnessione

C’è stata, nota Marazzi, anche una corresponsabilità della politica: «Al capitalismo post-fordista si è affiancato un approccio ideologico che cessa di riconoscere al lavoro il suo valore sociale. Nel frattempo si sono imposte politiche malsane, come il cosiddetto ‘workfare state’ che subordina l’erogazione delle indennità di disoccupazione – un diritto sociale – al principio del dovere economico, con lo Stato che fornisce alle aziende ‘braccia’ a basso costo e facilmente sostituibili». Che fare? «Parlarne è la premessa fondamentale, per questo abbiamo cercato di dare voce a chi vive le conseguenze della gratuità, per contrastarne la normalizzazione. Poi serviranno contromisure urgenti, ma ancora tutte da costruire: penso a app e strumenti informatici per denunciare gli abusi, al riconoscimento di un ‘diritto alla disconnessione’, alla tematizzazione della disponibilità e degli sconfinamenti degli orari nei contratti collettivi, eventualmente anche a una nuova ipotesi per un reddito di base. Ma dobbiamo anzitutto riscattare certe storie dall’invisibilità sociale». Come avverte anche Matteo, uno che ci è passato: “L’unica cosa che posso trasmettere agli altri è il messaggio di non stare zitti. Il silenzio non fa bene. Bisogna parlare, in modo civile, ma bisogna parlare”.

Per gentile concessione de laRegione Ticino






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