In Svizzera il segreto bancario è più importante della libertà di stampa
È il severo ma comprensibile giudizio dei giornalisti d’investigazione di mezzo mondo che hanno indagato sui Suisse secrets rivelando le enormi dimensioni dell’ennesimo scandalo del Credit Suisse
Suisse secrets riapre il dossier degli scandali bancari. La bufera che investe il Credit Suisse ha di nuovo scoperchiato preoccupanti magagne, dalle negligenze nel riciclaggio di denaro sporco fino alla museruola imposta ai giornalisti d’inchiesta. Uno scandalo nello scandalo. Rivela un atteggiamento ambiguo dopo la forzata rinuncia al segreto bancario. Sul palcoscenico internazionale la Svizzera si atteggia ad allievo modello, ma quando cala il sipario non se ne fa una ragione, riaffiorano i risentimenti o semplicemente il nostalgico latinismo di “pecunia non olet”, il denaro non puzza. Certo, la Svizzera ha fatto dei progressi e non tutte le banche sono scriteriate, l’UBS si è ravveduta è più accorta. Catastrofico invece il bilancio del Credit Suisse, da anni passa da uno scandalo all’altro, almeno una decina, collezionando multe per oltre 10 miliardi di dollari. Un consorzio di giornalisti d’investigazione di testate prestigiose come il Guardian, il New York Times, Le Monde o la Süddeutsche Zeitung hanno analizzato per un anno una colossale fuga di dati.
Conclusione: il Credit Suisse ha accolto i capitali più che sospetti di dittatori corrotti, criminali di guerra, mafiosi, trafficanti di droga e di esseri umani. Il Credit Suisse si difende dichiarando che il 90% di questi conti sono chiusi, archiviati. Ne rimane dunque un 10%, vale a dire 1800 conti eventualmente sospetti, ma non vi sono prove, non si sa. La sentenza di Monika Roth, giudice e professoressa specializzata nella criminalità economica, è senza appello: “fa rizzare i capelli, è ingiustificabile, è un fallimento totale”. Gli scandali del Credit Suisse sono fra i più impressionanti, ma non sono gli unici. Basti ricordare le calamità della Julius Bär, della filiale ginevrina della HSBC o dell’ex banca della Svizzera italiana. Fra le cause vi sono anche disfunzioni del dispositivo legislativo e qui bisogna fare una distinzione.
Le cose funzionano egregiamente nella lotta all’evasione fiscale, dopo l’entrata in vigore dello scambio automatico delle informazioni bancarie. Vi sono per contro carenze nella lotta al riciclaggio di denaro sporco. Lacunosi i controlli, anche perché la FINMA non ha le competenze per sanzionare adeguatamente gli abusi. La maggioranza borghese in parlamento si rifiuta poi di estendere la legge contro il riciclaggio anche ad avvocati, notai e fiduciarie, sconfessando persino un esponente di primo piano dell’UDC come il ministro delle finanze Ueli Maurer. Le resistenze diventano poi assurde e insensate quando si vieta ai giornalisti d’inchiesta di utilizzare dati trafugati da whistleblower, da insider delle banche insomma. Pena, fino a tre anni di carcere. E così i giornalisti di Tamedia non hanno partecipato all’inchiesta di Suisse secrets, come avevano fatto in passato per operazioni analoghe. Hanno però pubblicato numerosi ed estesi articoli basandosi sulle informazioni dei colleghi di 46 testate in tutto il mondo.
E questo è legale persino nell’oppressiva Svizzera, perché i giornalisti internazionali di Suisse secrets non sono insider, non sono whistelblower, sono dunque fonti autorizzate anche dai censori della nostra libertà di stampa. È contorto, persino ridicolo, comunque astruso. Bisogna arrampicarsi sui vetri per conciliare l’orgogliosa ambizione di difensori delle libertà fondamentali per poi zittire i media, violando in modo così pacchiano le libertà di stampa e d’espressione. I commenti all’estero sono sferzanti, forse sbrigativi, ma meritati: “in Svizzera il segreto bancario è più importante della libertà di stampa”.
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