Una mano di bianco politicamente scorretta
Il dibattito tra filologia e ideologia suscitato dalle recenti riscritture dei romanzi di Roald Dahl (o della vittoria di Netflix sul sacrosanto diritto alla proprietà intellettuale)
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Il dibattito tra filologia e ideologia suscitato dalle recenti riscritture dei romanzi di Roald Dahl (o della vittoria di Netflix sul sacrosanto diritto alla proprietà intellettuale)
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Il dibattito tra filologia e ideologia suscitato dalle recenti riscritture dei romanzi di Roald Dahl (o della vittoria di Netflix sul sacrosanto diritto alla proprietà intellettuale)
Stavo pensando in quale universo parallelo uno scrittore “maledetto” come Salman Rushdie – autore dei Versi satanici, oggetto di una fatwa da 34 anni e vittima ancora la scorsa estate di un tentato assassinio – avrebbe potuto spendersi in favore di uno scrittore adorato dai bambini come Roald Dahl. Un diavolo in difesa di un angelo, verrebbe da dire, né più né meno. Eppure la storia è vera e l’universo è naturalmente il nostro, sempre più asimmetrico, isterico e idiosincratico fino al punto di censurare e cancellare se stesso a ogni nuova occasione.
Da quando i media britannici hanno svelato le massicce “correzioni” apportate ai principali capolavori di Dahl, dalle Streghe a Matilda, da La Fabbrica di cioccolato al GGG, non sembra placarsi il dibattito attorno a questa ennesima – e davvero estrema – concessione al politicamente corretto, che d’accordo con gli eredi dello scrittore ha portato l’editore Puffin (ma la proprietà è di Netflix) a intervenire su tutti quei luoghi che avrebbero potuto suscitare risentimenti o anche soltanto sollevare il dubbio di una scarsa inclusività: cambiando ad esempio un riferimento a Joseph Conrad con uno a Jane Austen, una cassiera con una scienziata, un “padre” con un “genitore” e via di questo passo, in ossequio a tutte le quote di tutti i colori dell’arcobaleno.
Il fenomeno non è nuovo, ma sono nuovi il rigore e la sistematicità dell’operazione, che a prima vista sembrerebbe porsi in linea con i disclaimer cui ci hanno abituato ormai da tempo i lungometraggi della Disney: «Questo programma include rappresentazioni negative e/o trattamenti errati nei confronti di persone o culture. Questi stereotipi e comportamenti erano sbagliati allora e lo sono oggi…». Salvo il fatto che la Disney, con maggiore senso etico e pedagogico rispetto a Netflix, ammette poi che «la rimozione di questo contenuto negherebbe l’esistenza di questi pregiudizi e il loro impatto dannoso sulla società. Scegliamo invece di trarre insegnamento per stimolare il dialogo e creare insieme un futuro più inclusivo».
Al netto delle maggiori difficoltà nell’aggiornare un cartone animato rispetto a un testo (oggetto per definizione fragilissimo, come ci insegna la filologia), ciò che vale per gli Aristogatti evidentemente non funziona con gli Sporcelli, altrimenti non si spiegherebbero questi colpi di bianchetto degni della peggiore inquisizione ecclesiastica: era dai tempi del Decameron riveduto e corretto da Vincenzo Borghini (1559) che non si vedeva una simile riscrittura di un testo d’autore, in un’epoca che comunque non conosceva, come oggi, il sacrosanto diritto alla difesa della proprietà intellettuale. L’ambizione di “rifare meglio il passato” potrebbe anche far sorridere, non fosse per il pericolo sempre insito nell’utilizzo moralmente orientato della “verità” dei fatti (in questo caso quella di un testo): orizzonti da partito unico e monopoli mediatici totalitari, con i quali si flirta sempre più spesso in forza di non si sa bene quale pedagogia dell’età infantile aggiornata alle sensibilità odierne.
Alla base, prima ancora che nel merito delle correzioni, c’è l’errata convinzione che l’opera di uno scrittore sia una mitografia ritoccabile a piacere, esente perciò da qualunque obbligo filologico. “Con le fiabe si è sempre fatto così”, si giustifica la casa editrice, ed è vero: nessuno leggerebbe più ai propri figli le versioni originali (orrorose e terribili) delle storie raccolte dai fratelli Grimm. Ma Dahl? Se è patrimonio comune, cioè mito, cultura condivisa di una società in una determinata epoca storica, lo si tolga dalla tutela dei copyright e da qualunque speculazione commerciale – come avviene per l’Odissea, l’Eneide o Cappuccetto Rosso – per restituirlo aggiornato e corretto (meglio allora “liberamente ispirato a…”) ai lettori di oggi e di domani.
Ho il sospetto però che non succederà nulla di simile, perché la morale pedagogica interviene, anche in questo caso, soltanto in seconda battuta: prima, ed è triste dirselo, viene la paura dei detentori dei diritti (intesi qui esclusivamente in termini economici) di vedersi bandire per inadeguatezza la loro gallina dalle uova d’oro dall’aia globalizzata del terzo millennio, dove noi continuamo a fare purtroppo la figura dei polli.
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