Una pittura a tutto volume
Il percorso di Fernando Botero, il grande pittore e scultore colombiano scomparso da poco
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Il percorso di Fernando Botero, il grande pittore e scultore colombiano scomparso da poco
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Il percorso di Fernando Botero, il grande pittore e scultore colombiano scomparso da poco
La sua formazione l’aveva portato a viaggiare fra la Colombia e l’Europa: agli inizi degli anni Cinquanta, dopo aver partecipato ad alcune esposizioni e lavorato come illustratore e scenografo, era arrivato in Spagna, dove aveva frequentato l’Accademia madrilena di San Fernando e aveva studiato le opere del Prado, soprattutto Velazquez e Goya. Il rapporto con l’antico e il confronto con gli artisti del passato è stato uno dei cardini del suo percorso, che aveva preso una nuova dimensione in Toscana, dove aveva scoperto le opere di Giotto, Masaccio e Piero della Francesca, e studiato la tecnica dell’affresco. Le biografie ufficiali riportano anche di un interesse per l’espressionismo astratto americano, scoperto a New York, e per il cubismo, studiato a Parigi sui dipinti dell’ammiratissimo Picasso.
A Botero si deve la formulazione di un linguaggio immediatamente riconoscibile, composto da figure abbondanti, calate in atmosfere sospese, immerse in una sorta di Realismo magico dalle radici figurative ma lontano dalla rappresentazione realista. Lo stesso artista lo aveva dichiarato più volte: il fulcro del suo interesse non era la materia, ma il volume dei soggetti dipinti. Del resto, la sua produzione di sculture è lì a dimostrarci tutto il rilievo che l’artista ha dato, appunto, ai volumi. Una riflessione partita nella seconda metà degli anni Cinquanta che lo aveva visto lavorare su una natura morta, le cui forme venivano dilatate alla ricerca di una nuova sensualità. Nel corso dei decenni Botero ha elaborato una pittura dalla radice popolare ma al contempo intellettuale: un racconto nel quale è stato possibile cogliere il suo amore per l’arte e per il suo paese d’origine, e che si è popolato di ballerine, nudi e personaggi religiosi, figure legate al mondo del circo, nature morte e paesaggi, oltre che da uomini e donne colti nel loro quotidiano.
Come Picasso, considerato un vero e proprio punto di riferimento, Botero pensava che gli artisti dovessero schierarsi politicamente, prendere posizione, denunciare, e lo aveva fatto con la serie dedicata agli orrori del carcere iracheno di Abu Ghraib, una cinquantina di opere ispirate dalla visione di fotografie e dalla lettura di articoli nelle quali venivano messe in scena le torture che i detenuti avevano subito da parte dei soldati americani. Dipinti che avevano fatto il giro del mondo e che ancora oggi impressionano per la loro immediatezza e cruda verità, più violente delle violenza stessa, più grottesche delle stesse foto del carcere iracheno.
In Ticino Botero era conosciuto grazie soprattutto allo storico dell’arte Rudy Chiappini, che gli aveva dedicato due importanti esposizioni al Museo d’arte moderna della Città di Lugano (1997) e a Casa Rusca a Locarno (2011). Se dovessimo scegliere un’opera dal suo catalogo (e non è impresa facile, attratti come siamo dalla sua Gioconda, o dal doppio ritratto di Federico da Montefeltro e della moglie), una creazione che possa rappresentare la poetica di Botero, indicheremmo due affreschi scoperti per caso lo scorso anno nella piccola Chiesa di Sant’Antonio Abate a Pietrasanta, in Versilia, piccola cittadina ai piedi delle Alpi apuane, che l’artista aveva eletto a sua residenza per alcuni mesi dell’anno e dove si recava per lavorare. “La Porta del Paradiso” e la “Porta dell’Inferno”, realizzati nel 1993, ci introducono in un mondo animato da esseri fantastici, diavoli svolazzanti, Madonne abbondanti, in una sequela di sacro e profano nella quale fanno capolino anche Adolf Hitler e Pablo Escobar, considerati da Botero come i mali del secolo passato.
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