La profezia – Solo lui sapeva
Un ricordo ed alcune riflessioni per il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini
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Un ricordo ed alcune riflessioni per il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini
• – Redazione
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• – Redazione
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• – Aldo Sofia
Perché la neutralità ‘non è tacere nelle quattro lingue nazionali’
• – Pietro Montorfani
Ipotesi di scenari a confronto sull’esito della guerra in Ucraina
• – Sergio Roic
Stampa / Pdf
• – Franco Cavani
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• – Aldo Sofia
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• – Enrico Lombardi
Cosa segnalano, e cosa dovrebbero insegnarci, due grandi crisi che si intrecciano
• – Riccardo Bagnato
Parte l’attacco a guida UDC contro il servizio pubblico, con l’insidiosa proposta di un canone SSR ridotto a 200 franchi: sarebbero a rischio molti programmi e la loro qualità
• – Maurizio Corti
Il citatissimo «Io so, ma non ho le prove», scritto da Pasolini per il “Corriere della Sera” il 14 novembre del 1974, viene chiamato in causa quasi sempre come esempio inarrivabile di coraggio intellettuale; e — stabilito quel livello, effettivamente di fiammeggiante, scandalosa potenza emotiva — serve per dire che “dopo” sono andati sempre scemando l’autonomia e il vigore di un ruolo, quello dell’intellettuale, via via sbiadito per opportunismo o debolezza di pensiero.
A rileggere oggi, quasi mezzo secolo dopo, quello e altri celebri elzeviri (la scomparsa delle lucciole, contro i capelli lunghi) ho rivissuto l’emozione che, ventenne, insieme a tanti altri, provavo leggendo il Pasolini polemista. Ma ho anche inquadrato un poco meglio, credo, il valore e la seduzione di quella voce. Era una voce di scrittore, una voce di artista. Pasolini poteva permettersi quel volume e quel tono non perché fosse “un intellettuale”, come ce n’erano e ce ne sono tanti, anche di buon livello e forte tempra; ma perché era uno scrittore come ce ne sono pochi, con una disperata dedizione alla parola come esperienza fisica ben prima che sociologica o politica. Anzi: nessuna parola, detta da lui, avrebbe potuto avere un significato sociologico o politico, se non fosse stata, a produrla, l’esperienza fisica.
Nella nota introduttiva agli ”Scritti Corsari”, scritta pochi mesi prima di morire, il Pasolini polemista rimanda il lettore alle sue poesie: «All’opera che il lettore deve ricostruire mancano del tutto dei materiali fondamentali. Mi riferisco soprattutto a un gruppo di poesie italo-friulane». Citare la propria poesia come elemento di “spiegazione” della propria battaglia culturale non è certo tipico dell’intellettuale, e anzi può suonare riduttivo, distraente, narcisistico. È invece non solo concesso ma necessario, nel caso di Pasolini, “spiegare” il lavoro intellettuale con l’intuizione poetica, anzi come intuizione poetica.
«Il suo strumento conoscitivo era la sua esistenza», scrive Alfonso Berardinelli nella prefazione agli Scritti Corsari, tutto per lui era «questione personale, questione di vita o di morte». Nessun distacco intellettuale, nessuna oggettività, nessuna di quelle sfumature, di quei grigi che costituiscono, nel discorso intellettuale, una inevitabile tassa da pagare alla complessità del mondo. Era la «deformazione tendenziosa — cito sempre Berardinelli — a dare una straordinaria efficacia e coerenza provocatoria ai suoi discorsi. Sparisce ogni gioco di sfumature, di attenuazioni, correzioni, incisi, luci e ombre». Se dava l’impressione di scrivere “di getto”, senza calcoli e ripensamenti, era perché gli urgeva esprimersi ben al di fuori e al di là del “dibattito”, e ben dentro il proprio doloroso sentimento del mondo. Anche per questo lo si ammirò come un unicum, un grande isolato: perché lo era.
Dunque, come potrebbe Pasolini essere paradigma di coraggio intellettuale, essendo stati semmai il coraggio fisico e l’urgenza artistica (l’urgenza di scrivere) a renderlo più forte dello scandalo, dei vergognosi sarcasmi, delle inimicizie editoriali (tante, e fonte di polemiche feroci, vedi quella con Calvino), fino a farlo morire in quel luogo e in quel modo, testimone fino all’ultimo di se stesso, della propria angoscia, del terrore che fosse perduta, assieme all’oggetto mitico del suo amore, il Popolo, l’umanità intera?
Per dire “Io so”, nel 1974, bisognava essere Pasolini. In bocca ad altri quell’azzardo, quella lucente furia, sarebbero sembrati ridicoli o inverosimili, o peggio ancora insignificanti. Con ben maggiore coscienza, e malinconia, possiamo dirlo oggi, nell’epoca in cui «io so, ma non ho le prove», è diventato il dilagante logo della presunzione social, del popolino spietato e feroce che pasolineggia a buonissimo mercato, senza mai rischiare niente, senza metterci niente di davvero personale. Non c’è nessun dolore, nessun sacrificio, nessuna cicatrice nei tanti “io so” che formano nell’aria stormi di pregiudizio, di superficialità malata, di odio facile. Per permettersi il lusso di dire “io so” senza prove, per mettere nero su bianco parole conquistate dall’alto di una solitudine unica, e dal basso di una rischiosa promiscuità, bisognerebbe essere Pier Paolo Pasolini. Oppure tacere: ci sono tante altre cose da fare, nella vita, che Dire la Verità.
Se l’opzione, invece, è non tacere, le prove bisogna umilmente cercarle, bisogna studiare e bisogna leggere, confrontarsi, sbagliare e accorgersi di avere sbagliato. Bisogna essere insomma, ognuno nel suo, un intellettuale. Fare lavoro intellettuale. In questo senso Pasolini fu, senza volerlo, “cattivo maestro”. Illuse e illude molti che fosse possibile avere la sua stessa voce. Quanto ai buoni maestri forse è vero che ce ne sono pochi. Ma pochissimi, mi pare, sono i buoni allievi: sono troppo impegnati, in massa, a dire “io so”, per avere la pazienza di ascoltare.
Una replica di Manuele Bertoli, Direttore del Dipartimento Educazione, Cultura e Sport
Secondo Timothy Snyder, il maggior esperto di Storia dell’Europa orientale, la minaccia dell’Apocalisse nucleare è irrealistica. Ma la guerra continuerà, e forse gli USA...