La corazza del granchio
Di tifosi e calciatori che si proteggono ed esibiscono in nome della propria storia
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Di tifosi e calciatori che si proteggono ed esibiscono in nome della propria storia
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Di tifosi e calciatori che si proteggono ed esibiscono in nome della propria storia
Oggi e qui, nelle nutrite cittadelle di un’umanità dedita a proteggersi offendendo, si potrebbe paragonare il comportamento dei tifosi calcistici ma anche dei calciatori stessi con quello del granchio che ad ogni costo deve inventarsi una corazza in grado di proteggerlo dagli altri e che possa pure trasformarsi in arma di offesa e strumento di differenziazione.
E allora eccoci ai mondiali di Qatar con un bel vedere: il serbo-juventino Vlahovic, granchio virile, si tocca le parti intime in faccia a quelli della sua specie, ma pur sempre differenti, “altri”, alieni. Lo segue a ruota capitan Xhaka (Svizzera-Kosovo-Arsenal) che ripete il gesto e in più mostra il nome (lui dice di no, ma amen) di un guerrigliero kosovaro ucciso dai serbi negli anni ’90 ed oggi eroe in patria.
“In patria”: ok, in Kosovo. Ma qual è, allora, la patria di Xhaka che gioca per i colori svizzeri di cui è capitano?
Qui la faccenda rischia di farsi ingarbugliata: Xhaka gioca senz’altro per i colori svizzeri ma difende pure (ricorda) la vicenda kosovara (liberazione nazionale) alle origini della sua famiglia (questa seconda appartenenza possiamo definirla la corazza di un certo tipo di granchi?).
Il filosofo tedesco Leibniz affermò parecchio tempo fa che il nostro “è il miglior di tutti i mondi possibili”, ma non è vero, non è affatto così.
Che cosa ne pensate della mia corazza di granchio che in una fredda alba del 2010 fu ricostituita per un attimo sull’aviopista di Tirana (mi stavo recando dall’Albania, sede di un convegno della Radiotv locale, a Belgrado per il salone del libro)? Allora, sono le 6 del mattino, i voli in partenza sono due: il poliziotto che controlla il mio passaporto svizzero mi chiede “Per Monaco di Baviera, vero?”. Rispondo: “No, vado a Belgrado”. Il poliziotto mi guarda deluso, poi legge meglio nome e cognome sul passaporto rossocrociato e fa: “Ah, capisco”.
La pista è ancora avvolta nella notte. I passeggeri sono una decina, sono il primo della fila. L’assistente di volo serba urla “Parla la nostra lingua?”. Dico di sì, lei si scusa dicendo che gli albanesi non comunicano la lista dei passeggeri. Sull’aereo mi sonda: legge i caratteri cirillici? Sì, li leggo e lei, tutta contenta, mi dà in mano il giornale di Belgrado ПOЛИTИKA. L’aereo sorvola dapprima l’Albania, poi la Macedonia, infine la Serbia. Ho una zia a Belgrado e mia madre era serba. La voglia di corazza si manifesta tutto d’un tratto, mi dico: Sergio, stai tornando alla terra di Tanja, del nonno Vuk, dello zio Mika.
Giro la pagina di ПOЛИTИKA, ecco, questa è la quattordicesima. Dobrica Ćosić, eminente scrittore serbo e già capo dello Stato (serbo), scrive dell’assoluta purezza degli intenti storico-politici serbi, della grande incomprensione per i legittimi obiettivi della Serbia da parte dell’Europa, delle innumerevoli ingiustizie patite dai serbi durante l’arco della loro storia.
Alzo il naso dal giornale e mando i nazionalismi, tutti quanti, al diavolo. È meglio, molto meglio, essere un granchio solitario che portare una corazza di quel tipo.
Quattro ore e 4 minuti al telefono con l’Helpdesk di Swisscom. 14 interlocutori. Nessuna soluzione trovata.
Se ne è parlato poco in Occidente, ma sono allontanamenti che dicono quanto la partita sia aperta ai vertici dell’esercito russo