La fragilità degli adulti e il disagio degli adolescenti
Intervista allo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini a proposito della drammatica questione del suicidio giovanile, oggetto di un suo recente libro
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Intervista allo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini a proposito della drammatica questione del suicidio giovanile, oggetto di un suo recente libro
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Intervista allo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini a proposito della drammatica questione del suicidio giovanile, oggetto di un suo recente libro
Lancini, quello che si chiama il disagio degli adolescenti è diventato davvero un’emergenza?
«Già prima della pandemia, si è verificato un aumento straordinario di sofferenza negli adolescenti, che si esprime in diverse forme. Per esempio, con il disturbo alimentare o con il ritiro sociale, noto anche come hikikomori, una scelta radicale nel momento in cui l’adolescenza ti spinge a nascere socialmente. Si arriva poi al massimo della sofferenza, i tagli autolesionistici e la sparizione definitiva, il tentativo di suicidio. L’aumento è comunque indiscutibile».
Come vanno interpretate queste manifestazioni?
«Esistono approcci diversi al suicidio giovanile. Alcune culture psichiatriche tendono a interpretarlo come il segnale di una forma di malattia mentale già esplicita. La nostra esperienza clinica al Minotauro ci fa pensare che il sintomo non è necessariamente da intendersi, se non in un caso su 10, come l’esordio di una psicopatologia, ovvero di una perdita di contatto con la realtà o di qualcosa che potremmo definire “pazzia”. A noi sembra il contrario: il tentativo di suicidio è per lo più un disperato modo per non impazzire di dolore».
Dunque, non va considerata come una malattia?
«Preferiamo parlare di una sofferenza evolutiva. L’adolescenza è fatta così: ti senti bloccato nella tua crescita, non vedi un futuro e non riuscendo a mettere in parole la sofferenza la agisci contro di te o contro gli altri. Il sintomo ha sempre due contenuti. Da una parte, segnala un disagio importante che va preso sempre molto sul serio, anche quando si pensa di essere di fronte a un atto definito “dimostrativo”. Il secondo aspetto è che si tratta di un modo per curare un dolore. Federica Pellegrini, nel suo libro [Oro, Mondadori, 2023, n.d.r.], ci fa capire che il disturbo alimentare, che per altri era un problema, per lei era la risoluzione del problema. La spinta chiamiamola inconscia dell’essere umano è far di tutto pur di non impazzire dal dolore, evitare i tratti psicotici di delirio, tipici di chi non si riconosce più e dice di essere Gesù, Napoleone o Superman. Noi lavoriamo nella convinzione che il pensiero suicidale in realtà è quello che tiene in vita un ragazzo, anche se quel pensiero non passa mai».
Sta dicendo che se uno matura un pensiero di suicidio, non se ne libererà mai?
«Secondo la nostra esperienza, a distanza di anni, ahimè, quando un adolescente ha pensato o tentato il suicidio, quella rimane una possibilità sempre presente, con la quale deve in qualche modo convivere: può essere meno presente e pervasiva, ma resta sempre nella mente. E questo succede anche a ragazzi che assistono a tentativi di un amico o di un compagno. Dobbiamo distinguere tra chi desidera il suicidio perché è matto e tra chi lo desidera perché è un soggetto che soffre molto. In questo caso, è indispensabile integrare due elementi: non negare il dolore ma non vedere in questo il segnale di una psicopatologia. C’è un’ampia letteratura. Cesare Pavese ha pensato tutta la vita che si sarebbe suicidato e a un certo punto l’ha fatto. Altri lo pensano tutta la vita e non arrivano a realizzarlo. Per tenerlo a bada bisogna farlo convivere con un investimento sul futuro».
Come vanno presi i gesti cosiddetti dimostrativi?
«È sbagliato pensare che a gravità del gesto corrisponda un analogo livello di intenzionalità: io ho incontrato dei ragazzi che pur facendo gesti in apparenza blandi erano fortemente intenzionati a morire. Non c’è una linearità. Per noi anche un ragazzo che dice di aver tentato il suicidio con due tachipirine va preso sul serio. È chiaro che c’è sempre uno scopo comunicativo importante, dunque è bene accoglierlo senza banalizzarlo. Perché a quel punto pur di farsi ascoltare il ragazzo alza il tiro e il rischio si fa ancora più elevato. Restano da capire le ragioni dell’aumento degli ultimi anni».
Possiamo ipotizzare delle cause?
«Sono fenomeni complessi su cui spesso si semplifica tirando in causa la famiglia e un po’ la scuola. Dobbiamo tener conto che ormai i ragazzi crescono immersi in un bagno di modelli di identificazione adulti e massmediatici contraddittori che affiancano le agenzie educative tradizionali. I problemi adolescenziali non derivano più dalla società sessuofobica, al centro non c’è più un soggetto edipico che soffre perché non può esprimere sé stesso in nome della colpa. Prevale piuttosto un sentimento pervasivo di vergogna, di inadeguatezza all’interno di modelli sociali, familiari, educativi che puntano sull’immagine e sulla precocizzazione, con bambini profondamente adultizzati sin dall’asilo: si pensi all’ingresso nei social, ben prima dei dieci anni, con profili personali, ma gestiti dai genitori. Si cresce con l’idea che tu debba avere successo, essere popolare, intelligente, molto bello, avere tanti follower e tanti amici, fare un sacco di attività altrimenti i genitori si angosciano».
Si riconduce tutto sempre al narcisismo diffuso…
«La cultura psicanalitica guardava al suicidio come al rifiuto del corpo sessuale, peccaminoso soprattutto per le ragazze. Ormai il corpo erotico e la sessualità non contano più niente, contano l’estetica e l’apparire, in una società performante dove arrivi con un ideale dell’Io ipertrofico. A un certo punto, entrando nell’adolescenza, devi fare i conti con i limiti del corpo e capisci che quel corpo su cui hai creato un’attesa grandiosa crolla inevitabilmente, e di colpo non ti senti all’altezza di tante aspettative esagerate. Il fallimento, il brutto voto, il senso di esclusione ti si presentano come fattori precipitanti per cui il piccolo Sé non regge il paragone con il grande Sé che hai maturato. Dovevi diventare un campione olimpico, ma di campioni olimpici ce n’è pochi… Mentre la colpa era più elaborabile, magari con un Pater Noster, la vergogna è pervasiva e molto visibile».
Lei parla di postnarcisismo. Che cosa intende?
«Non è più questione di pensare solo a sé stessi, di alimentare il proprio ideale e di trascurare l’altro, ma subentra un vissuto dissociato, è la società dell’estremizzazione di sé stessi: i bambini, non crescono più secondo le aspettative ideali competitive, ma si chiede loro di assecondare la fragilità dell’adulto, di essere ricettivi rispetto alle nostre esigenze affettive: “Sii te stesso a modo mio” … Bisogna essere sé stessi nel modo di qualcun altro, dei genitori, della scuola, di una società ricca di contraddizioni. Insomma, arrivi all’adolescenza senza nucleo identitario e la sparizione dalle scene diventa l’unica soluzione che trova la mente davanti al dolore. Ce lo dicono molti ragazzi quotidianamente».
Cosa dicono questi ragazzi?
«Nella scomparsa vedono anche terribili benefici secondari: lasci in vita un ideale meraviglioso di te, l’idea che se n’è andato il migliore, un’immagine eroica che diventa eterna… Tant’è vero che il suicidio promuove anche emulazioni».
Ma la prepotenza e la violenza non prevalgono quantitativamente sul senso di fallimento?
«Si dice che ogni omicidio è un suicidio mancato e, viceversa, ogni suicidio è un omicidio mancato. Spesso sono aspetti che convivono. Dove va l’aggressività? Prendiamo il ritirato sociale: è un adolescente che di fronte a un coetaneo abbassa lo sguardo, crede di svenire dal rossore e dalla timidezza, ma a casa magari segue dei gruppi estremisti, di notte urla al video contro “quei bastardi”, i nemici delle sue battaglie nei videogiochi, e i genitori dicono che è un leader. Questa spavalderia, aggressività, spregiudicatezza è collocata sempre dentro una fragilità. Bisognerebbe riuscire a esprimere una rabbia costruttiva, per esempio mandando a quel paese gli interlocutori interni, che sono spesso i genitori e i compagni di classe. Non dimentichiamo che il suicidio è un definitivo processo separativo, con aspetti anche vendicativi. Persino il bullo è questo. Si dice che il bullo attacca il diverso. Non è vero: il bullo attacca ciò che in quel momento percepisce come il più simile a sé stesso, cioè un soggetto che è rappresentato dal gruppo come fragile, non a caso il bullismo si manifesta a scuola con un popolo che osserva o persino a favore di telecamera».
Fragilità e precocizzazione: due responsabilità determinanti degli adulti?
«Il fatto è che gli adulti vivono non una contraddizione ma di più, una dissociazione nella proposta educativa. Per esempio, il corpo dei ragazzi è stato catturato da internet o è finito in internet perché da diversi anni noi lo teniamo sotto sequestro facendogli fare solo attività volute dagli adulti. A 7 anni io tornavo da solo da scuola e a Milano c’era appena stata la strage di Piazza Fontana. Oggi l’adulto ha immobilizzato il corpo di figli e studenti, anche se viene loro imposto il nuoto, l’atletica, la danza, tanti impegni pomeridiani, le merende, le feste, ma non c’è nessuna sperimentazione in autonomia, nessuna esperienza non presidiata dagli adulti, è una privazione di fiducia e di responsabilità».
Si può discutere con un figlio del suo desiderio di sparire per sempre?
«Oggi la morte è molto spettacolarizzata ma è anche più rimossa che in passato. Una volta vegliare il cadavere di un nonno era un’abitudine, oggi i genitori non portano il figlio a un funerale per non drammatizzare. Fra un po’ aboliranno Bambi, romanzo di formazione straordinario, perché la morte della mamma è un trauma che fa piangere il bambino. C’è una rimozione della morte in nome di una fragilità propria degli adulti».
La famiglia attuale ascolta i figli molto più che in passato, ma siamo capaci di ascoltarli davvero?
«La sofferenza e il dolore dei figli vengono vissuti quasi come un affronto o come una iniezione di angoscia. Se i ragazzi stanno male, presi a loro volta dall’ansia gli adulti attribuiscono il malessere ai social e al periodo del Covid, che sono i grandi schermi su cui proiettiamo la nostra povertà e le nostre incertezze educative. La pandemia invece in molti casi ha consentito ai figli di dire ai genitori “sto male”, perché li tenevano al riparo dalla responsabilità. I genitori dal canto loro potevano dire: “c’è una pandemia, lo credo che sta male”, mentre prima dicevano: “ma come, siamo una famiglia così affettiva, ti veniamo incontro, ti accontentiamo in tutto e tu soffri… com’è possibile?”. Un modo che non consente repliche o espressioni alternative. Sa qual è il vero paradosso?».
Quale?
«Gli adolescenti attuali crescono avendo in mente il funzionamento affettivo della propria madre, del proprio padre, del proprio insegnante molto più di quanto padri, madri, insegnanti abbiano in mente il mondo affettivo dell’adolescente. Ne sanno più i ragazzi degli adulti che il contrario. Cosa mai vista».
È una comunicazione ipocrita?
«Il “cucciolo d’oro” del narcisismo ci ha consegnato adolescenti fragili, e oggi la fragilità adulta rischia di consegnarci degli adolescenti che non possono permettersi di dire come stanno. A rivelarlo ci penseranno l’ansia diffusa, che non è ansia da prestazione ma è angoscia, e le varie forme di attacco al corpo. Ma in generale, abbiamo difficoltà a parlare di suicidio, tanto più se accade a un giovane. Se una ragazzina muore impiccata, l’idea immediata è di parlare d’altro: si parla della messinscena di un omicidio o di istigazione, non voleva morire, è colpa di internet, un gioco finito male… Il fatto è che non basta più il consiglio dell’ascolto, bisogna far sentire ai ragazzi che possono dire come stanno davvero. Il tema del suicidio in questo senso è il più urgente. Piuttosto di chiedere a nostro figlio, vedendolo triste, se pensa al suicidio, gli diciamo di spegnere il cellulare perché è tutta colpa dei social. La nostra fragilità impedisce ai ragazzi l’espressione di sé».
Cosa l’ha colpita nei tanti casi recenti di suicidio?
«Le racconto questo quadro familiare. Un ragazzo, dopo aver letto del suicidio di una coetanea per un fallimento universitario, torna a casa e sente il desiderio di condividere le sue angosce: “Avete letto della ragazza che si è suicidata? Meno male che ieri ho passato l’esame se no facevo la stessa fine”. Il padre risponde: “Ci manca anche quello”, e la madre: “Smettila subito di dire queste cose”. È un esempio di come l’intento comunicativo venga messo subito a tacere, si richiede al ragazzo di non affrontare un tema troppo angoscioso: prevale il Sé e non la volontà di capire come sta il figlio».
Può essere qualcosa tra delicatezza e timore…
«Eppure, sappiamo che parlare di suicidio, nominare la parola nell’ambito familiare abbassa immediatamente il fattore di rischio: magari il ragazzo scoppia a piangere perché ha sempre avuto vergogna a parlarne e persino di pensarlo con dei genitori che hanno fatto così tanto per lui. Tant’è che alcuni ragazzi si ammazzano simulando un incidente in auto pur di non far sapere alla mamma che è un suicidio, per paura di infragilirla. È necessario parlarne. Insegnando in università, dico sempre ai miei studenti: se avete un ragazzo triste, al primo colloquio chiedetegli se ha mai pensato al suicidio, senza girare intorno alla questione. È un modo per stabilire un’alleanza senza precedenti».
Si può dire che spesso si arriva al pensiero del suicidio senza trauma?
«Tutto è discutibile. Come noto, ci sono modelli psicanalitici che parlano del trauma infantile. Per Otto Rank c’è addirittura il trauma della nascita. È chiaro che se fai un’autopsia psichica al suicida, il trauma nel passato lo trovi sempre, basta un amore deluso. Ma noi sappiamo che un ragazzo soffre enormemente più che per il passato per quel che gli accade o non gli accade nel qui ed ora e nell’assenza di prospettive future. Spesso il suicidio nasce dall’angoscia del futuro».
Articolo scritto per “La Lettura – Corriere della sera”
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