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• 27 Agosto 2023 – Raffaella Carobbio

Sono passati due anni da che, in Afghanistan, i talebani hanno ripreso il potere. Violenza, oppressione, povertà, fame. E ancora: oltre un terzo delle bambine e dei bambini è costretto a lavorare per aiutare la propria famiglia o per cercare almeno, tra mille pericoli, di mantenersi (questo è il triste quadro descritto da “Save the Children” nel suo ultimo rapporto). Due anni sembra siano bastati a sbiadire lo sdegno, l’attenzione e, forse, anche un certo senso di solidarietà verso questo popolo, o meglio, per i diversi popoli che abitano quelle terre. A due anni di distanza – e sono i dati più recenti, quelli del mese di luglio, dell’Ufficio federale delle dogane – il maggior numero di entrate irregolari in Svizzera è proprio di persone di origine afgana.

Ma non ci sono solo i nuovi arrivati: la storia degli afgani in Svizzera ha radici lontane. I primi raggiunsero la Confederazione una cinquantina di anni fa, dopo il colpo di stato del 1973: facevano parte della vecchia élite monarchica. La maggior parte di loro, oggi, ha la cittadinanza svizzera ed è perfettamente integrata. Da lì in poi le ondate migratorie si sono via via susseguite: un paese che non ha conosciuto e non conosce pace da oltre quarant’anni e ha visto partire più di due milioni e mezzo di persone ( verso l’Europa, molti verso paesi vicini come il Pakistan o l’Iran, e da lì ancora per il Vecchio Continente). Una popolazione eterogenea sia per religione, lingua, cultura, sia per formazione.

Una eterogeneità che ritroviamo anche tra chi vive in Svizzera, rendendo così difficile parlare di una “comunità afgana” poiché sono tante e diverse le etnie che provengono dallo stesso paese: i pashtun (la più numerosa), i tagichi, gli hazara (vittime di continue persecuzioni, violenze e discriminazioni). E sono solo alcuni dei popoli che vivono in Afghanistan. Una realtà complessa che rende difficile comprendersi e sostenersi quando, e molte volte capita, non si parla magari nemmeno la stessa lingua: “C’è un profondo senso di solitudine, una sofferenza, per molti afgani che vivono in Svizzera, anche in Ticino” mi dice Aresu Rabbani “a volte è difficile per le persone aprirsi e cercare aiuto anche tra di noi: ci sono difficoltà linguistiche ma anche diffidenza”.

Aresu Rabbani, è arrivata in Ticino 15 anni fa con la madre, una sorella e quattro fratelli, il più piccolo non aveva nemmeno un anno. Hanno attraversato le montagne innevate del loro paese, poi l’Iran…un viaggio rischiosissimo, ma sempre meno pericoloso che restare in Afghanistan dove i talebani le avevano rapito il padre e ucciso alcuni familiari. Negli anni successivi, sono arrivati in Ticino anche gli altri suoi due fratelli, già esuli in Iran.Qualche anno fa, sono riusciti a rintracciare anche il papà e, dopo un’infinita serie di difficoltà, non da ultimo la salute dell’uomo, incarcerato per oltre un decennio in condizioni disumane, Aresu è riuscita a ottenere il ricongiungimento familare e trasferire qui anche suo padre.

La sua tenacia e la sua buona integrazione sono state cruciali. Una determinazione che Aresu ha sempre dimostrato: ha frequentato il liceo a Mendrisio poi è partita per Zurigo dove ha iniziato gli studi e dove oggi vive e si sta formando come ostetrica. Mi racconta che a Zurigo si è trovata subito bene e per lei è stato facile integrarsi. La città offre maggiori possibilità affinché questo avvenga. Aresu ha pure ottenuto il passaporto svizzero e collabora, fin dalla sua fondazione con Asylex un’associazione che ha come obiettivo informare, accompagnare e aiutare altri profughi a ottenere l’asilo o un permesso, o un ricongiungimento familiare. 

La strada verso l’accoglienza e l’integrazione non è facile e lei lo sa bene: nella sua famiglia, sua sorella, come lei, ha ottenuto il passaporto, un fratello ha un permesso B, la madre e altri 4 fratelli hanno un permesso F (da oltre 10 anni) e un fratello – con la moglie e un bambino –  è ancora senza alcun permesso: sono NEM, “non entrata in materia”. Una situazione che crea enormi difficoltà, isolamento, insicurezza, impossibilità di lavorare e la paura costante di dover tornare in un paese martoriato sia dalla miseria, sia dalla violenza. Ma anche vivere con un’ammissione provvisoria non è facile: e infatti, per la madre di Aresu, che da 15 vive con un permesso F, è impossibile trovare un lavoro o anche semplicemente fare del volontariato: le sue competenze linguistiche sono scarse, nonostante gli anni passati in Ticino. Anni che ha dedicato alla cura dei figli, a crescerli e a proteggerli. Anni “persi” per il suo percorso d’integrazione. Una situazione che le ha lasciato conseguenze anche sulla salute, sia fisica sia psichica, rendendo ancora più ostico il suo inserimento a livello sociale e lavorativo. 

E la vita da “ammessi provvisoriamente” tocca molti, moltissimi afgani che vivono in Svizzera e in Ticino: “Certo, c’è uno statuto di protezione, viene concesso loro il permesso di restare nonostante non abbiano diritto all’asilo, di ricevere di che vivere… Ma poi? Molti si sentono come parcheggiati e dimenticati” mi dice ancora Aresu “per loro non è vita: vorrebbero imparare la lingua trovare un lavoro, seguire una formazione e ricostruire – o costruire – il proprio futuro, la propria vita. 

Tra le ultime generazioni, che hanno lasciato l’Afghanistan negli ultimi anni, ci sono persone che hanno avuto l’opportunità di studiare, a differenza dei loro genitori. In Svizzera sono arrivati anche giovani che hanno una formazione in ambito della comunicazione, dell’audiovisivo o del giornalismo che proprio per questa loro scelta hanno dovuto lasciare il paese. Ora sono qui e non riescono a ripartire, le loro competenze valgono poco o nulla e devono ricominciare daccapo. Ma come? Se il permesso F è un ostacolo quasi insormontabile nella ricerca di un posto di lavoro? Se ricevono solo risposte negative? Si sentono persi…delusi, tristi, soli. E si sentono in colpa perché spesso le famiglie investono tanto, tutto, su chi parte: la speranza, la possibilità di essere a propria volta aiutati anche e soprattutto economicamente. E così, molti nemmeno raccontano delle loro difficoltà, degli insuccessi, ai familiari: si tengono tutto dentro e quella sofferenza diventa malattia”. Alcuni soffrono di disturbi da stress postraumatico e “in questo limbo” non si sentono comunque al sicuro. Hanno paura, paura di essere rispediti, da un momento all’altro, in Afghanistan. Temono per la loro vita.

Una sofferenza che Ali (il nome è di fantasia) conosce bene perché questa precarietà, questo sentirsi “parcheggiato” li vive sulla sua pelle. Arrivato due anni fa nella Svizzera tedesca si è subito impegnato  – nonostante tutte le difficoltà – a ripartire, a farsi una vita, lontano dalla sua casa, dai suoi cari: “Ero liceale quando sono scappato dall’Afghanistan e ho dovuto lottare contro la nostalgia: era tutto nuovo e sconosciuto: mi ci sono dovuto abituare. Vivo con una famiglia ospitante e mi sono costantemente impegnato a imparare il tedesco e a integrarmi nella società. Era il mio obiettivo principale perché la Svizzera offre tante opportunità”. Quali sono i tuoi progetti, i tuoi sogni, gli chiedo: “Sto cercando di diventare meccanico d’automobili, per trovare al più presto un lavoro e mantenermi ma, ogni volta che mi rivolgo a un’azienda per lo stage, mi dicono che le mie competenze linguistiche non bastano, non so abbastanza bene il tedesco. Allora mi sono rivolto al mio responsabile per l’integrazione per chiedere di poter perfezionare il mio tedesco, ma mi ha risposto che possono fornire un sostegno finanziario solo fino al livello B1, e io avrei bisogno almeno un B2 o un C1… Ho proprio un po’ perso la speranza a volte non capisco come la Svizzera mi tratta, è un modo ambiguo e mi sento discriminato.”

“Sai, ci sono persone – afgane come me – che non hanno retto a questa incertezza nell’accoglienza e a questa solitudine e si sono tolte la vita.” Certo, Ali, purtroppo lo so…

Nell’immagine: il Permesso F






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