Con l’invasione russa dell’Ucraina si è rafforzata la consapevolezza di quanto sia importante la dimensione geopolitica per definire
clivages e schieramenti politici. Pur se avviluppate nella rete informatica planetaria e in un’economia globalizzata, le sovranità territoriali hanno ancora un peso decisivo, in primo luogo come grandi aree di influenza (come imperi, ci ricorda
Paolo Favilli nel suo lucido intervento su Naufraghi/e). Non a caso la guerra investe anche l’economia globale e la rete, ad esempio con sanzioni, ricatti nelle forniture energetiche e attacchi informatici. I conflitti geopolitici subiscono, per converso, gli effetti di un mondo interdipendente e globalizzato, fino al paradosso di un’Europa che sostiene militarmente l’Ucraina e finanzia abbondantemente la Russia comprandole il gas.
In questo contesto geopolitico, la sinistra europea, per sua natura idealmente cosmopolita, si deve di nuovo porre la questione del giudizio etico e politico sul ruolo mondiale dell’Occidente, in cui è nata e di cui è una componente essenziale; Occidente che, però, è stato anche il suo principale bersaglio , in quanto formata da movimenti che hanno voluto essere critici, riformisti e rivoluzionari, e che hanno spesso saputo rappresentare la più alta espressione della coscienza delle colpe occidentali nei riguardi resto del mondo.
Forte della crescente supremazia economica e politica europea, la cultura ottocentesca del nostro continente, nel cui contesto è sorto il movimento socialista, era dominata da una visione eurocentrica, consistente nella convinzione che le dinamiche storiche fondamentali per il progresso umano passassero essenzialmente dall’Europa ed eventualmente in seguito potessero giungere in America (lo spirito del mondo si sposta da Oriente a Occidente, diceva Hegel all’inizio del secolo XIX). Anche il movimento socialista, pure nelle sue espressioni intellettuali più alte, risentì di questo clima. Ad esso può in certa misura essere ricondotta anche la lettura deterministica da parte dei marxisti della teoria marxiana, col risultato di attribuire una validità universale al modello europeo di passaggio dal mondo feudale a quello borghese-capitalistico, e poi al socialismo.
L’Europa era dunque, si pensava, all’avanguardia, lungo un itinerario che tutta l’umanità prima o poi avrebbe dovuto percorrere. Spesso, per evidenziare questa impostazione eurocentrica, sono citate polemicamente le parole di Marx (apparse sulle pagine della “New York Daily Tribune” nel giugno del 1853) in cui questi riconosceva dei meriti al colonialismo inglese in India, in vista dello smantellamento del “dispotismo orientale”, per cui l’Inghilterra, nonostante la sua ferocia, era un “inconsapevole strumento della storia”. Marx rivedrà in seguito questa posizione, che è comunque sintomo di un certo rapporto fra la sinistra e l’Occidente, che ritroviamo ovviamente anche nella sua anima liberale e radicale: tanto per fare un esempio illustre, il pensatore radicale John Stuart Mill, come il padre James Mill, svolse per anni un ruolo dirigenziale nella Compagnia inglese delle Indie orientali. Erano tutti figli del loro tempo.
Le cose sono mutate nel Novecento, in primo luogo, ovviamente, a causa della rivoluzione d’ottobre, avvenuta non nel cuore dell’Europa, ma in un paese a cavallo fra Europa e Asia, fra Occidente e Oriente; e poi con l’infiammarsi delle lotte anticolonialiste e il sorgere di una coscienza “post-coloniale” e terzomondista. L’anomalia russa non fu comunque un fulmine a ciel sereno. Se vogliamo riprendere il riferimento a Marx, proprio l’approfondito confronto con i marxisti russi, oltre alla lettura critica delle ricerche etnografiche più avanzate dell’epoca, spinsero il pensatore di Treviri ad allontanarsi con decisione dall’applicazione meccanica al resto del mondo del modello europeo di sviluppo storico. Negli ultimi anni di vita approfondì la situazione in Russia, riflettendo pure sulle potenzialità rivoluzionarie della tradizionale comune agricola russa e sulla possibilità di una rivoluzione in quel paese, intesa però come segnale per una rivoluzione in Occidente.
Ma quel che è successo dopo la prima guerra mondiale e la rivoluzione d’Ottobre è tutta un’altra storia, con cui ha avuto inizio il “secolo breve”. Il baricentro della sinistra, il suo fronte avanzato, il suo orizzonte simbolico si sono spostati fuori dall’Europa e dall’Occidente. Sulla valutazione di questo spostamento il movimento socialista si divise profondamente e sul riferimento privilegiato alla esperienza sovietica si fondò il comunismo novecentesco. Un nuovo orizzonte era stato aperto dalla prima rivoluzione fatta dagli ultimi, mentre l’Europa, invece di avviarsi verso il socialismo, si stava inabissando nel nazifascismo. Anche nel secondo dopoguerra, durante gli anni della guerra fredda, la sinistra europea continuò ad essere schiacciata fra il capitalismo atlantico, liberal-democratico, e la sfida sovietica, che ancora per un certo periodo mantenne i caratteri di una possibile, anche se sempre più improbabile, alternativa radicale.
Inoltre si acutizzarono le lotte anticolonialiste dei “dannati della terra”, che mettevano in luce le nefandezze di un imperialismo e di un predominio mondiale dell’Occidente le quali rendevano difficile, anche per ampi settori della sinistra non comunista, dirsi “filo-occidentali”; e che spingevano qualcuno a riconoscersi nelle violente parole che Sartre aveva scritto, con riferimento alle guerre anticoloniali, nella sua prefazione ai Dannati della terra (1961) di Frantz Fanon: “Far fuori un europeo è prendere due piccioni con una fava, sopprimere nello stesso tempo un oppressore e un oppresso: restano un uomo morto e un uomo libero”.
L’inumanità occidentale aveva tradito il suo umanesimo, dalla guerra d’Algeria o del Vietnam al colpo di stato nel Cile di Pinochet, e a molto altro ancora. I contadini del terzo mondo erano ritenuti, soprattutto in una parte dalla nuova sinistra, il vero soggetto rivoluzionario a livello mondiale. L’URSS per alcuni, il Terzo mondo (in primis la Cina di Mao e della rivoluzione culturale) per altri, o un qualche intreccio fra di loro, sembravano i veri punti di riferimento ideali. La critica radicale del capitalismo si era “geopoliticizzata”, diventando critica della posizione dell’Occidente (soprattutto degli Stati Uniti) nel mondo, nel nome di un altrove a volte reale ma più spesso immaginario.
Gli odierni eccessi della cancel colture sono una versione isterica e depressiva di questo atteggiamento. Queste difficoltà a costruire un’identità a partire da sé e non da altri non impedirono, comunque, alla sinistra europea, nelle sue varie espressioni, di svolgere un ruolo decisivo nell’organizzazione di lotte sociali e istituzionali (difesa dei diritti dei lavoratori, costruzione dello stato sociale, ecc.), fatto che ha indotto Ralph Dahrendorf, forse con eccessiva enfasi, a parlare del Novecento come del secolo socialdemocratico.
Oggi il panorama è completamente mutato. L’Unione Sovietica, non solo il suo mito, si è dissolta e grandi paesi comunisti, come Cina e Vietnam, già vincitori di guerre contro l’Occidente (guerra di Corea, guerra del Vietnam) si sono trasformati da presunte utopie in reali potenze basate su forme nuove, dinamiche e aggressive di capitalismo. Anche la Federazione russa, erede dell’URSS, è ora un triste esempio di capitalismo “cleptocratico” unito ad un sistema politico dittatoriale e con vocazione espansionista manu militari.
Nello stesso periodo l’Occidente capitalistico ha subito la svolta neoliberista. Affermazione del neoliberismo, crollo dell’URSS col suo sistema di stati satelliti, trasformazione capitalista della Cina, sviluppo di India e altri paesi asiatici, hanno creato le condizioni per una nuova globalizzazione economica di enorme portata. Ora veramente tutto il mondo è, per dirla con le parole con cui Marx apre in Capitale, una “immane raccolta di merci”. Questo mondo non coincide più con l’Occidente e i suoi valori, il cui successo dopo il crollo del muro di Berlino avrebbe dovuto invece rappresentare, secondo qualcuno, addirittura la fine della storia. La nuova fase globale ha visto avanzare prepotentemente proprio alcuni paesi collocati nelle aree non occidentali: ad esempio, se negli anni Settanta, ai tempi in cui una certa sinistra radicale considerava “la Cina vicina”, il PIL pro capite cinese era un decimo di quello europeo, oggi è giunto ad essere più di un terzo di quello del nostro continente (pari a quello della Bulgaria) e centinaia di milioni di cinesi sono usciti dalla miseria.
Il pianeta è suddiviso in diversi capitalismi. Quello occidentale – in particolare quello europeo, che gode dei privilegi e soffre delle colpe della primogenitura – non pare essere il peggiore, anche se sta peggiorando: si contraddistingue rispetto agli altri, positivamente, per una maggiore libertà individuale e per il rispetto dello stato di diritto (conquiste delle rivoluzioni borghesi), per la presenza di regimi democratici, di livelli di diseguaglianza inferiori al resto del mondo (questo vale per l’Europa, anche grazie all’azione storica della socialdemocrazia), pur se di nuovo crescenti; negativamente, per un tasso pro capite di consumo di risorse naturali altissimo e per una spesa per armamenti (soprattutto in USA) enorme.
Come ogni forma di capitalismo, anche quella occidentale continua a conoscere lo sfruttamento, al suo interno e nei rapporti con il resto del mondo, e a nutrire spinte imperialiste. Inoltre, la rivoluzione neoliberista ha prodotto una mercificazione quasi totale della nostra società, ansia, precarietà e più stress nel lavoro, rancore sociale (cavalcato dai populismi e dai sovranismi), diseguaglianza crescente, alienazione (e anche depressione); il potere economico ha assunto una prevalenza esorbitante su quello politico democratico (anche questo aspetto è frutto della forza storica della borghesia proprietaria, che non troviamo negli altri capitalismi, nei quali, non essendoci la certezza del diritto, anche i ricchi possono perdere dalla sera alla mattina la libertà, ad opera di un potere politico dispotico che tutto controlla: e in una società in cui neppure i ricchi sono liberi, nessuno è libero; ma certo, qualcuno potrebbe pensare che questa sia la vera eguaglianza), mentre la disaffezione per la democrazia si diffonde, favorita dall’impotenza della politica e dal peggioramento relativo della condizione economica delle classi medie e popolari. Ma, nonostante tutto, rimane la forma “migliore” di “capitalismo reale”.
In questo quadro la sinistra occidentale si trova a dover gestire un paradosso: da un lato deve riacquisire una effettiva capacità di azione critica verso il sistema, al fine anche di recuperare un rapporto con i ceti popolari, che ora guardano prevalentemente a destra, e di tenere viva la causa dell’eguaglianza: infatti questo mondo non è il “nostro mondo”; dall’altro deve recuperare un rapporto positivo, pur senza nessun trionfalismo, con la sua identità occidentale e con i valori e gli interessi legittimi dell’Occidente e in particolare di un’Europa che si deve volere sempre più unita influente e volta alla cooperazione internazionale, in un mondo multipolare. Nessuna redenzione verrà da fuori, mentre, anzi, il carattere autoritario e dittatoriale dei paesi che esprimono con successo altre forme di capitalismo rappresenta una sfida politica e ideale decisiva per una sinistra che si considera erede dell’illuminismo.
In base a quanto detto, ritenere legittimo e necessario il sostegno alla causa dell’Ucraina è un modo per riconoscere che la difesa della libertà e della democrazia vigenti in Occidente, e il sostegno offerto a coloro che ad esse guardano con speranza, sono condizioni necessarie, pur se non sufficienti, anche per l’esercizio di quella funzione critica e trasformativa che la sinistra dovrebbe svolgere: una funzione che a sua volta è alimento indispensabile della nostra democrazia.