90 anni di voci italofone
Un medium in costante trasformazione tecnica e tecnologica, e costantemente chiamato ad interrogarsi sul proprio ruolo formativo, culturale, identitario
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Un medium in costante trasformazione tecnica e tecnologica, e costantemente chiamato ad interrogarsi sul proprio ruolo formativo, culturale, identitario
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Un medium in costante trasformazione tecnica e tecnologica, e costantemente chiamato ad interrogarsi sul proprio ruolo formativo, culturale, identitario
Dapprima fu un ascolto collettivo, quasi religioso, attorno al mobile che aveva soppiantato le pionieristiche radio a galena degli anni venti; poi la radio ritmò le giornate, con la musica, la serialità delle trasmissioni, i momenti chiave, come gli spazi informativi e di servizio. “Al terzo tocco saranno esattamente…”, il segnale di Neuchâtel rimpiazzò le campane in un mondo che ormai non poteva perdere più nemmeno un secondo e il bollettino meteo divenne presto un momento imperdibile, dapprima per una popolazione ancora in buona parte contadina e poi per le generazioni che vivranno di turismo.
Con il transistor e le batterie, dalla metà degli anni Cinquanta, la radio si moltiplicò e divenne mobile: la si ascoltava ormai in bagno, durante un picnic, in automobile. Sempre più alla mattina, mentre la televisione fu ben presto il totem attorno al quale sedeva la famiglia la sera. E si scriveva alla radio, per esprimere le proprie richieste e le proprie opinioni.
Poi l’avvento del digitale, e il consumo del medium si trasforma. La radio, quando è via web, si ascolta su un apparecchio multiuso, un terminale che permette nello stesso momento di consultare la griglia dei programmi, accedere al replay, parlare, (troppo) spesso di sé, alle trasmissioni di contatto (e l’insulto a chi smista le telefonate è moneta corrente). Presto, immagino, cuoceremo anche le uova strapazzate direttamente sullo schermo del telefonino dal quale già ammiccano, con un sorriso contrattuale, animatrici e animatori incorniciati dalle cuffie.
Anche la RSI si è adeguata a tutti questi cambiamenti, ampliando le trasmissioni, diluendo il pubblico su tre reti, con la terza nata nel 1988, cinque anni dopo la fine del monopolio. Ma se l’evoluzione tecnologica influenza tutta la radiofonia, ogni stazione radio è speciale. Cosa dunque vale la pena ricordare della Rsi in queste poche righe? Azzardo qualche pista. Dapprima il territorio. La Rsi nacque a seguito della creazione della Società svizzera di radiodiffusione (SSR) nel 1931, quando la Confederazione accantonò i vari tentativi locali e permise così alla Svizzera italiana di avere un’istituzione culturale nazionale di valore. L’idea era che questo nuovo mezzo dovesse servire tutti i cantoni veicolando contenuti di alta qualità nelle lingue nazionali. Da qui, la suddivisione della tassa di concessione, l’odierno canone, in maniera più equa e non in base ai bacini di ascolto.
Si ricorda spesso, con un certo compiacimento, il ruolo di radio italofona “libera” durante gli anni del regime fascista e del secondo conflitto mondiale; vorrei qui piuttosto insistere su ciò che la Rsi, come le altre consorelle, ha compiuto per mettere in relazione il territorio elvetico, poiché la radio ha certamente portato per prima il mondo nelle case, ma il mandato di servizio pubblico l’ha soprattutto sollecitata a far conoscere il resto del Paese in tutte le sue sfaccettature, sociali, culturali e politiche; a portare le orecchie della Svizzera italiana oltre i suoi confini; a creare in alcuni frangenti solidarietà interregionali. In fondo, lungo il Novecento, ha contato più Guglielmo Tell o la radio nella costruzione di un’identità nazionale?
La radio ha la vocazione di superare le frontiere e anche la diffusione della Rsi è una storia di frontiere valicate. Agli albori, ebbe più agio a giungere in Italia che nelle locali valli discoste e solo negli anni novanta del secolo scorso emise Oltregottardo. Da Radio della Svizzera italiana a Radio Svizzera di lingua italiana, dunque. Una modifica del nome che ribadisce come la Rsi non dovrebbe essere solo una radio locale.
Non si trattò però solo di onde. Sulla scorta di abitudini culturali ben ancorate nella regione, la Rsi poté professionalizzarsi velocemente proprio perché intuì l’importanza di aprirsi alle collaborazioni con i mondi vicini. Ciò le consentì di sviluppare generi radiofonici specifici, quali il radioteatro, di ampliare le offerte musicali, di attingere a esperienze radiofoniche più consolidate; soprattutto le permise di sperimentare, un verbo che invita a osare, ad aprire gli orizzonti, a scansare il semplicismo.
L’apporto delle donne e degli uomini di cultura giunti dall’Italia sin dagli anni Trenta va in particolar modo riconosciuto, poiché permisero di dare più senso e più contenuto anche all’idea di italianità. Un italianità che la Rsi declinò però da subito tenendo presente, senza alcun senso di inferiorità, le specificità e le ricchezze della Svizzera italiana: si pensi, tra i molti aspetti, all’uso del dialetto nelle trasmissioni.
Tutto rose e fiori dunque? No, certo, né ieri, né oggi. A sottolineare però l’importanza del mezzo radiofonico, si cominciò subito a discuterne animatamente le funzioni. Tra gli argomenti che alimentarono e alimentano tuttora i vivaci confronti, un’impostazione della radio troppo convenzionale e dominante per alcuni gruppi e troppo poco per altri. Non sempre la Rsi fu ed è all’altezza nelle risposte. La politica fu ed è altresì particolarmente pressante sul servizio pubblico. E allora vale la pena ricordare che quest’anno cade un altro anniversario. Nel 1963 si tenne il primo ciclo di dibattiti radiofonici alla Rsi in occasione delle elezioni cantonali. Per lungo tempo, infatti, era parso inopportuno parlare di politica alla radio; tra le altre giustificazioni, si temeva la semplificazione e la banalizzazione dei temi. A sessant’anni di distanza e a elezioni cantonali appena concluse, mondo politico e giornalismo ticinesi, i due grandi comunicatori sociali, si sono ritrovati parlando di p(i)attume del dibattito. Magari basterebbe che gli uni avessero meno paura delle domande complesse e gli altri meno paura di porle; insomma, che ognuno si decidesse finalmente ad assumere pienamente il suo ruolo, perché la radio, come tutti gli altri media, continui ad avere il giusto e fondamentale peso in una società democratica. Ma questo è meglio dirlo a microfoni spenti.
Articolo scritto per “laRegione”
Immagine d’archivio da La nostra storia
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