Dentro la guerra – In ricordo di Bogdan Bitik, giornalista ucciso a Kherson
L’agguato, gli spari, la morte dell’amico e collega nel racconto di Corrado Zunino, inviato di “Repubblica”, anch’egli ferito
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L’agguato, gli spari, la morte dell’amico e collega nel racconto di Corrado Zunino, inviato di “Repubblica”, anch’egli ferito
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L’agguato, gli spari, la morte dell’amico e collega nel racconto di Corrado Zunino, inviato di “Repubblica”, anch’egli ferito
Ho sentito i colpi, un bruciore alla spalla e ho visto Bogdan cadere a terra a un metro da me. Pochi secondi. È morto davanti ai miei occhi. Una sofferenza atroce. Bogdan era un grande amico e un giornalista di valore.
Lavoravamo insieme da mesi. In tutte e cinque le mie missioni in Ucraina ho avuto lui al mio fianco. Lunedì sera eravamo arrivati a Mykolaiv con l’obiettivo di muoverci verso Kherson, a Sud, per raccontare la controffensiva ucraina. Dal 20 aprile ci sono notizie di incursioni delle forze di Kiev al di là del ponte Antonovsky, nella zona sotto controllo dei russi. Abbiamo organizzato il viaggio con le attenzioni e le prudenze sempre usate.
Alle 9.30 siamo partiti per Kherson con la Volkswagen, Bogdan alla guida, io accanto. Abbiamo costeggiato il fiume, il Bug orientale, che sfocia nel Mar Nero, e ci siamo fermati a fare foto e video. È una zona che è stata in guerra, occupata a lungo dai russi, ma da tempo è stabilmente in mano ucraine. Oltrepassiamo tre check-point: Bogdan scambia qualche parola con i militari, non ci dicono nulla. Arriviamo a Kherson, una città svuotata – poche macchine, qualche bicicletta – ma non distrutta come i centri dell’Est. Si vedono i segni dei colpi di mortaio sui palazzi. Ci spostiamo verso una zona portuale, finiamo davanti a un hotel disabitato con le finestre bombardate, Bogdan scherza: «Stanotte dormiamo qui». Sentiamo dei colpi ma sono molto lontani, saranno stati 8-10 chilometri, in zona russa, sulla riva orientale del Dnepr. Gli ucraini tengono il lato occidentale, dove siamo noi. Non ci sono scambi di fuoco tre le due parti.
Ci avviciniamo al ponte Antonovsky perché dal 20 e poi dal 22 aprile ci sono evidenze di incursioni ucraine sull’altra sponda. Lasciamo la macchina e saliamo la rampa. Non si sentono esplosioni né rumori di droni, ci fermiamo per filmare il ponte che è parzialmente distrutto in due punti. Ci sono dei militari ucraini a circa 20 metri da noi. Ho addosso il giubbotto antiproiettili blu con la scritta bianca “press”, “stampa”, e in testa l’elmetto. All’improvviso gli ucraini urlano «go away, go away», andate via, e «press, press». Sono pochi secondi: mi giro per tornare verso la macchina che è a 30 metri dai noi, Bogdan rimane fermo, sento un colpo da dietro, la spalla che brucia. Mi giro sperando che Bogdan mi stia seguendo, ma lui non si muove, è a terra. Pochi metri e cado anche io. Perdo sangue dalla spalla e cadendo mi ferisco a una mano, al ginocchio, al naso. Non capisco da dove arrivi. Siamo ancora sotto tiro.
Scoprirò dopo in ospedale che un terzo proiettile si è conficcato anche nella parte anteriore del mio giubbotto, che la polizia ucraina ha sequestrato per le indagini. Mi rialzo, decido di non tornare alla macchina perché sarei ancora un bersaglio, corro, vedo i due militari ucraini nel check-point nel pilone, li guardo per capire da dove provengano gli spari. Nulla.
Continuo a correre.
Sulla strada verso Kherson incrocio una macchina civile, gli faccio segno di fermarsi. Ho il sangue che mi cola dal naso, ferite da caduta in tre punti e una quarta ferita da proiettile alla spalla destra. L’uomo alla guida è uno del quartiere, gli chiedo di portarmi al primo ospedale. In macchina mi parla, racconta del momento in cui la zona è stata liberata dai russi, io continuo a chiamare Bogdan sul cellulare, ancora e ancora. Non risponde. Due ore dopo mi dicono che il suo corpo è lì, sempre lì, sul terreno: è troppo pericoloso andarlo a prendere sotto il tiro dei cecchini.
Arrivo all’ospedale di Kherson. Ci sono tre donne alla reception e un medico: mi controllano le feri- te, mi fanno le analisi. Arrivano la polizia e le forze speciali ucraine. C’è Dmytro, il responsabile dell’ufficio stampa militare delle Forze Sud. È il primo a dirmi: «Sniper», cecchini, «possono tirare anche da così lontano, 400-500 metri». La polizia sequestra il mio giubbotto: dovranno analizzare il proiettile che si è conficcato all’interno dell’intelaiatura per capire chi ha sparato. Mi dicono che del mio caso si sta occupando l’ufficio di presidenza. Mi portano in ambulanza, un’ora di viaggio in direzione Mykolaiv. Nel tragitto un sergente medico mi mostra sul telefono la foto di un bambino di 12 anni completamente coperto di sangue per un bombardamento in casa. Mi racconta che i russi sparano su tutto, che i medici sono il primo target. In una piazzola vengo prelevato con un elicottero militare, viaggiamo per un’ora a quota bassa fino alla clinica militare di Odessa.
Ripenso a un anno fa, a giugno. Con Bogdan eravamo andati a Lysychansk per aiutare un gruppo di ucraini che cercavano di scappare dalle bombe. Portammo in salvo quattro donne della stessa famiglia fino a Bakhmut, che all’epoca non era il deserto di macerie che è oggi. Bogdan era generoso. Un ucraino che stava dalla parte della sua gente ma voleva anche capirne i difetti. Cercava di essere comprensivo con le persone, con le loro paure, non si scontrava mai con nessuno. Era di una grande intelligenza. Due sere fa gli ho detto: «Quando torno in Italia ad agosto vieni su con me, in Liguria, e festeggiamo il mio compleanno». Mi ha risposto: «L’Italia. Mi piacerebbe tanto. Ma non credo che mi faranno ancora uscire dall’Ucraina».
Nell’immagine: Bogdan Bitik (a sinistra) e Corrado Zunino (a destra)
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