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A proposito di piattaforme e democrazia
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A proposito di piattaforme e democrazia

L'informatico e attivista Aaron Swartz credeva che Internet potesse diventare un luogo di completa condivisione della conoscenza. A dieci anni dalla sua morte, cosa resta di quella parvenza di libertà?


Redazione
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A proposito di piattaforme e democrazia
• 21 Gennaio 2023 – Redazione

Di Nicola Lacetera, Il Mulino

 

Sono passati dieci anni da quando, l’11 gennaio 2013, il ventiseienne Aaron Swartz si tolse la vita nel suo appartamento di Brooklyn. Il giovane informatico e attivista sociale era accusato di aver scaricato quasi cinque milioni di articoli accademici dalla biblioteca digitale Jstor con l’intenzione di renderli gratuitamente disponibili anche a chi non aveva un abbonamento, commettendo in questo modo una frode informatica. Insieme ad altre accuse collegate, la condanna poteva arrivare fino a trentacinque anni di reclusione.

Divulgare attraverso la rete questi articoli fu l’ultima battaglia di Swartz affinché Internet diventasse un luogo di completa condivisione e diffusione della conoscenza e del pensiero, senza condizionamenti e influenze politiche o economiche.

Per la sua formazione e le sue idee, Aaron Swartz ricordava i pionieri dell’informatica come la conosciamo oggi. Da una parte, Swartz aveva enorme talento nella programmazione, anche grazie all’esposizione ai linguaggi informatici già in età infantile, proprio come molte delle figure principali della rivoluzione digitale (si pensi ad esempio a Bill Gates). Dall’altra, il giovane attivista credeva fortemente in una società aperta, democratica e organizzata dal basso, e nella capacità delle tecnologie digitali di essere il veicolo della conoscenza necessaria affinché questo tipo di società si realizzasse. Non è un caso che i pionieri dell’informatica avevano cominciato a operare, nei primi anni Settanta, nella California delle contestazioni studentesche e dei nuovi movimenti giovanili, delle comuni e dell’amore libero, dell’uguaglianza e della condivisione. Nel suo saggio From counterculture to cyberculture, Fred Turner (Stanford University) sostiene l’espressione “villaggio globale“, coniata dal sociologo dei media Marshall McLuhan, rappresentasse in quegli anni, allo stesso tempo, l’utopia “hippie” e la potenziale realtà di un mondo interamente connesso che soprattutto il personal computer, introdotto proprio negli anni Settanta, avrebbe presto reso possibile, portando in ogni casa lo strumento per interagire, alla pari, con chiunque. I primi esperimenti con la Rete esprimevano questo spirito nella natura pubblica di questi servizi, nel supporto da parte di agenzie federali negli Stati Uniti, e nell’uso della Rete quasi esclusivamente per finalità di ricerca e di istruzione.

Nel tempo, tuttavia, questa base culturale si è trasformata da fondamento ideale a semplice e conveniente narrazione di una realtà profondamente diversa. Alla visione comunitaria della Rete si è progressivamente sostituito un approccio più libertario che raccontava una storia simile di uguaglianza e diffusione del sapere, ma che vedeva nel mercato e nella proprietà privata i veicoli per ottenere questi obiettivi. L’ondata conservatrice nella politica degli anni Ottanta e il crollo del comunismo reale fornirono ulteriore materiale ideologico per una rapida “privatizzazione” della Rete. Questa narrazione si rivelò talmente potente che molti governi di fatto sospesero l’applicazione delle regole antitrust per le imprese che operavano online. L’esplosione del commercio elettronico sembrava garantire facile accesso ai mercati per le “startup” al pari delle grandi imprese e la derivante competizione riduceva i prezzi dei prodotti e dei servizi correlati (come le spedizioni a domicilio): un indubbio vantaggio per gli utenti.

L’emergere di piattaforme digitali, come quelle che consentivano di tenere “diari” online (blog) o che creavano i primi social media (Myspace, poi Facebook e tutti gli altri a seguire) offrivano gratuitamente a individui e organizzazioni un luogo dove esprimere le proprie idee, scambiarle con altri e acquisire informazione. All’apparenza, un trionfo della concorrenza e un indubbio aumento del benessere economico e sociale.

Ma il tipo di mercato che si stava sviluppando sulla rete era molto diverso da quanto apparisse. Le piattaforme digitali sulle quali “domanda” e “offerta” si incontrano (ad esempio compratori e venditori su piattaforme di commercio elettronico, utenti/lettori e inserzionisti sui social media) beneficiano di “effetti di Rete”: più sono gli utenti che queste piattaforme riescono ad attirare, più è conveniente per venditori/inserzionisti operare su queste piattaforme; e più sono i prodotti e i servizi, più altre persone decideranno di aggiungersi, e così via. Il vantaggio dall’operare sulla stessa piattaforma porta, insomma, al dominio di pochi grandi soggetti sul mercato. Per ottenere questo vantaggio, bisogna crescere prima e più velocemente degli altri. Amazon, per esempio, ci è riuscita offrendo prezzi bassi e condizioni molto vantaggiose per le spedizioni ai consumatori, spesso a scapito dei fornitori. I social network (e i motori di ricerca come Google) offrono il loro servizio gratuitamente agli utenti, per attirarne il più possibile e rendere le loro piattaforme appetibili agli inserzionisti (paganti).

Più sono gli utenti che queste piattaforme riescono ad attirare, più è conveniente per venditori/inserzionisti operare su queste piattaforme; e più sono i prodotti e i servizi, più altre persone decideranno di aggiungersi

La quantità di partecipanti, tuttavia, non è di per sé sufficiente a rendere una piattaforma appetibile agli inserzionisti; è essenziale che ci sia “traffico” e “coinvolgimento”, e cioè che gli utenti spendano tanto tempo su questi siti, seguano i link proposti, condividano post, lascino commenti, e così via. E niente è più potente per motivare il coinvolgimento ripetuto delle persone che stimolare le loro emozioni invece che la ragione, specie se le emozioni sono negative, come la rabbia, la paura e lo scontento. Tuttavia non sempre (anzi, raramente) è l’informazione più verificata e consequenziale che stimola forti emozioni. Spesso, invece, hanno questo effetto le notizie più tendenziose, non verificate o palesemente false, ma che la maggior parte degli utenti non riesce a distinguere dalle altre. E più questi utenti rispondono agli stimoli di queste notizie, più gli algoritmi che determinano cosa vediamo sulle nostre pagine social “imparano” che sono queste le cose che ci coinvolgono e ce ne proporranno altre di simili. Tutto questo non solo è gratuito, ma mantiene anche una parvenza di libertà e di rispetto dei consumatori, a cui viene offerto proprio ciò che essi rivelano di trovare più interessante.

Ma l’informazione non è un bene come un altro. Una informazione corretta e verificabile è fondamentale per il buon funzionamento di una democrazia, affinché ci sia un bilanciamento dei poteri e il controllo su di essi dell’opinione pubblica. La sbandierata “democratizzazione” che la rivoluzione digitale avrebbe dovuto portare, consentendo a tutti di accedere a informazione e conoscenza a basso costo, tale non è se gli incentivi di chi questa informazione fornisce o veicola sono distorti e poco hanno a che fare con la qualità dell’informazione stessa. Dalle elezioni presidenziali americane del 2016 e del 2020 con conseguente assalto al Congresso, al referendum sulla Brexit, al disastro comunicativo durante la pandemia di Covid, l’avvelenamento del discorso pubblico e l’aumento della polarizzazione politica e culturale hanno avuto nei social media un carburante prodigioso.

Con il trasferimento di gran parte del discorso sociale, politico e culturale sui social network, la cittadinanza di fatto delega l’organizzazione di questo dibattito e la qualità delle informazioni su cui si basa a pochi ultraricchi soggetti privati, le cui motivazioni e obiettivi non sono chiari ma quasi certamente non includono, come predominante, quello di rendere il mondo più giusto, libero ed eguale tramite un’informazione trasparente e di qualità.

Con il trasferimento di gran parte del discorso sociale, politico e culturale sui social network, la cittadinanza di fatto delega l’organizzazione di questo dibattito a pochi ultraricchi soggetti privati

L’acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk nei mesi scorsi, e la sua (almeno sin qui) grottesca gestione, rappresentano il culmine sia della narrazione panglossiana della Rete, sia dei rischi per la democrazia che la rete porta con sé. La principale piattaforma online di comunicazione e dibattito politico è in mano a una singola persona che si autodefinisce difensore della libertà di espressione, ma il suo retroterra e le sue manie, ben raccontate dalla storica Jill Lepore nel podcast “The Evening Rocket”, dicono tutt’altro. Un’origine familiare caratterizzata dall’adesione ai “tecnocrati” degli anni Trenta che immaginavano il mondo come un meccanismo governato da ingegneri, e dall’emigrazione in Sudafrica per una vita più serena da bianchi nel regime dell’Apartheid, invece di rimanere nel più minaccioso e multiculturale Canada. Una formazione culturale basata sugli elementi più tradizionali e retrivi della letteratura di fantascienza dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, specialmente quelli superomistici e patriarcali. Un ego smisurato messo in mostra in ogni occasione, mentre molte delle sue iniziative imprenditoriali, come Tesla, hanno perso miliardi di dollari e sono spesso sopravvissute grazie a sussidi e regolamentazione pubblica. Davvero ci sentiamo tranquilli a delegare a quest’uomo l’ultima parola su quale informazione deve circolare su una così grande piattaforma?

Come ha scritto Stefano Feltri su “Domani”, le responsabilità per questa evoluzione sono diffuse e non riconducibili a un singolo individuo. La politica tutta, a destra come a sinistra (o quanto meno la sua versione da “Terza Via”), ha esaltato questo tipo di progresso tecnologico ed economico. E, purtroppo, tanti colleghi accademici hanno offerto legittimazione scientifica e intellettuale, restringendo l’attenzione solo su alcuni aspetti oggettivamente positivi della rivoluzione digitale, come la riduzione dei costi di acquisizione e diffusione della conoscenza, ma glissando sulle possibili distorsioni che alcuni osservatori avevano, invano, cominciato a denunciare, come lo stesso Aaron Swartz, Meredith Whitaker, Jaron Lanier, Frank Foer e Cathy O’Neil, tra gli altri. L’esaltazione specialmente da parte di studiosi nei dipartimenti di economia e nelle business school fa sorgere anche il dubbio che questo entusiasmo non fosse (e non sia) del tutto ingenuo e disinteressato.

Che fare, quindi? L’economista tedesco Albert Hirschman formalizzò, nel 1970, le categorie di defezione e protesta (“exit” e “voice”) per descrivere le forme che il dissenso può prendere in una comunità o mercato. Con la defezione, cittadini, lavoratori o consumatori “abbandonano” la particolare organizzazione o mercato – astenendosi dal votare, licenziandosi o non acquistando più un prodotto. L’esercizio della protesta, invece, include l’espressione del dissenso dall’interno, in varie forme di partecipazione attiva. Questa seconda forma può apparire come superiore alla prima, perché genera più informazione e prevede una partecipazione diretta al cambiamento. Ma nel caso dei social media, partecipazione significa “traffico” e traffico significa più profitti – insomma, ogni critica dall’interno non fa che rafforzare, invece che indebolire, i modelli di business delle piattaforme di social media. Più effettiva, insomma, potrebbe essere la defezione, o quanto meno una sensibile riduzione dell’attività degli utenti (chi scrive ha cancellato il suo profilo Twitter il giorno dell’acquisizione da parte di Elon Musk). Il meccanismo “virtuoso” della crescita che si autoalimenta e la narrazione che lo circonda potrebbero finalmente incepparsi costringendo a riconsiderare il ruolo di questi strumenti tanto potenti quanto pericolosi.

E se il mercato, lasciato a se stesso, non fosse in grado di correggersi, allora più regolamentazione pubblica, anche con interventi di controllo diretto sui principi degli algoritmi e sulla proprietà delle piattaforme, non dovrebbe essere un tabù. D’altra parte, proprio agli albori di Facebook, Mark Zuckerberg definì il suo servizio come una “utility”, cioè un servizio al cittadino come la distribuzione e la vendita di energia elettrica, l’erogazione dell’acqua o lo smaltimento dei rifiuti. Nel XXI secolo, insomma, è impossibile essere appieno cittadini senza l’accesso a informazione digitale di qualità. E se questa informazione passa soprattutto per le piattaforme di social media, perché il settore pubblico, attivo in vario modo nel regolare la fornitura di altri servizi, non dovrebbe essere più presente anche in questo?






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