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di Vera Politkovskaja, Corriere.it

Vera, anche lei reporter, ha scritto con Sara Giudice «Una Madre», edito da Rizzoli, da oggi in libreria. Il libro, del quale pubblichiamo alcuni estratti, è dedicato al ricordo del lavoro della madre Anna e alla lunga battaglia per ottenere la verità sul suo omicidio. La traduzione è di Marco Clementi. Vera incontrerà fra l’altro i lettori domani a Milano, alla Fondazione Feltrinelli, con la vicedirettrice vicaria del «Corriere» Barbara Stefanelli. 

Mia madre è sempre stata una persona scomoda, non solo per le autorità russe, ma anche per la gente comune che sfoglia un giornale e ne legge gli articoli . Purtroppo la maggioranza della popolazione russa crede a quello che le viene detto dagli schermi dei canali di Stato: un mondo virtuale creato dalla propaganda, dove, nel complesso, tutto va bene. E i problemi, che periodicamente vengono segnalati all’opinione pubblica, hanno origine nei Paesi occidentali o, come si dice in Russia con un sorrisetto, «nell’Occidente in decomposizione».

Nei suoi articoli mia madre parlava raramente di cose piacevoli e quasi sempre era messaggera di cattive notizie. Scriveva la verità, nuda e cruda, su soldati, banditi e gente comune finita nel tritacarne della guerra. Parlava di dolore, sangue, morte, corpi smembrati e destini infranti.

Il 7 ottobre 2006, il giorno in cui è stata uccisa, avevo ventisei anni e mi stavo preparando a diventare madre. Fino ad allora avevo voluto credere che la sua popolarità in Occidente avrebbe potuto in qualche modo salvarla da possibili rischi o da una morte violenta. Mi sbagliavo. I dittatori hanno bisogno di offrire sacrifici umani per consolidare il loro potere.

L’unico modo per proteggere la libertà è combattere la menzogna e dire la verità.

In Russia la libertà manca, eppure non me ne sarei mai voluta andare. Il Paese che aveva dato i natali agli assassini di mia madre era anche il Paese dove volevo vivere e lavorare. In Russia tutti si sono dimenticati in fretta di Anna Politkovskaja, soprattutto la gente che conta, perché mantenere la memoria di persone come mia madre è pericoloso. È molto più comodo perderne le tracce e dimenticare la sua verità.

In Occidente il nome Politkovskaja è fonte di orgoglio. A mia madre intitolano piazze e vie, la sua attività giornalistica viene studiata nelle università, i suoi libri si vendono in tutto il mondo. In Russia quel nome è avvolto dal silenzio. La Cecenia, al centro delle più importanti inchieste di mia madre, è adesso pacificata e il potere nella repubblica si è stabilizzato. Comanda Ramzan Kadyrov, che ha sempre mostrato apertamente il suo odio per lei.

La guerra in Ucraina ha stravolto la nostra vita. Dopo il 24 febbraio 2022 il nostro cognome è tornato ad avere un peso, a essere oggetto di minacce, ancora di morte, questa volta contro mia figlia, che è solo un’adolescente. Da quando a scuola hanno iniziato a parlare del conflitto in Ucraina, i compagni si sono scagliati contro di lei. Pesantemente. Così abbiamo scelto l’esilio volontario, la fuga in un altro Paese. Da un giorno all’altro abbiamo fatto le valigie e ce ne siamo andate da Mosca, che già ci aveva tolto tanto. A me la madre, a mia figlia la nonna.

Ho deciso di scrivere questo libro per ricordare la lezione che mia madre ci ha lasciato: siate coraggiosi e chiamate sempre le cose con il loro nome, dittatori compresi.

Nel 1999 mia madre approdò al giornale dove sarebbe rimasta fino alla fine dei suoi giorni, la Novaja Gazeta. La Cecenia entrò nella sua vita attraverso la storia di una casa di riposo a Groznyj, i cui ospiti, circa novanta persone, si erano ritrovati nel mezzo delle operazioni militari. Insieme allaNovaja Gazeta , mamma organizzò la loro evacuazione in un posto sicuro al di fuori del Paese e in seguito si occupò di trovare loro una sistemazione definitiva.

Da quel momento cominciò una serie infinita di storie e di questioni legate al Caucaso: campi profughi, indagini sui crimini commessi dai militari in Cecenia e molti, molti altri temi. […] Appena uscirono i primi articoli, la sua popolarità crebbe. Così, con il tempo, le missioni in Cecenia, e in generale nella regione del Caucaso, si trasformarono in vere e proprie operazioni di intelligence.

Mia madre mi raccontò che una volta, per superare uno dei posti di blocco in Cecenia, l’avevano fatta sdraiare sotto il sedile posteriore di un fuoristrada Uaz, ricoprendola di stracci e coperte. Oltrepassato il checkpoint, era rimasta in quella posizione per un centinaio di chilometri.

Quando mamma era via, in pratica non avevamo alcun contatto con lei, perché non esistevano linee telefoniche adeguate. Eppure non sono mai rimasta a casa ad aspettare che tornasse. Del resto, lei non l’avrebbe voluto. Mia madre era una donna estremamente indipendente e con questo spirito ha cresciuto anche noi .

…il nonno veniva spesso anche quando c’era mamma. Discutevano di politica davanti al caffè mentre io e mio fratello ci preparavamo per uscire. Veniva per controllare sua figlia, per capire se dovesse partire ancora. «Perché devi andare lì, Anjutik? È pericoloso, figlia mia» si lamentava. […] «È necessario, papà» rispondeva lei, provando a tagliare corto, poi si avvicinava e mi diceva all’orecchio di non parlare ai nonni delle sue prossime partenze, per non farli preoccupare troppo. Tanto poi lo avrebbero saputo comunque . Anche i parenti più stretti le chiedevano spesso perché continuasse ad andare in Cecenia. Succedeva ogni volta che ci incontravamo, per esempio alle feste di compleanno. E lei rispondeva sempre allo stesso modo: «Perché nessuno lo fa e quelle persone hanno bisogno di aiuto!». O, più semplicemente: «E chi ci andrebbe, se non io?».

Nell’immagine: Anna e Vera Politkovskaja a Mosca nel 2005






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