BSI e quei capitani usciti indenni dalla tempesta

BSI e quei capitani usciti indenni dalla tempesta

Dopo la condanna della società BSI SA e quelle dei due banchieri responsabili dei conti 1MDB, i soli attori a non essere stati indagati sono i dirigenti bancari dell’epoca. Ossia coloro che hanno portato nel baratro la banca


Federico Franchini
Federico Franchini
BSI e quei capitani usciti indenni dalla...

È passata un po’ in sordina la recente condanna, seppur non ancora definitiva, nei confronti della BSI per la sua implicazione nello scandalo legato al fondo malese 1MDB. Certo, la vicenda data ormai di qualche anno. Il tempo passa e forse ci si è dimenticati delle conseguenze che ebbe quella vicenda: di fatto, contribuì a cancellare dalla geografia bancaria ticinese il principale istituto che ne ha fatto la storia. Soffermarsi un attimo su questa notizia – la condanna di BSI – è quindi utile per chiarire alcuni aspetti di quelle sciagurate avventure sud-est asiatiche. 

Prima, però, un breve riassunto dei fatti recenti. Lo scorso 11 gennaio, il Ministero pubblico della Confederazione (MPC) ha emesso un decreto d’accusa con cui si ritiene BSI SA colpevole di «responsabilità d’impresa in relazione ad atti di riciclaggio di denaro aggravato». L’inchiesta penale, iniziata nel 2016, nel momento stesso in cui la FINMA decretò la fine della banca, ha stabilito che BSI ha «omesso di prendere tutte le misure organizzative ragionevoli e indispensabili per impedire il reato di ripetuto riciclaggio di denaro aggravato». Una multa di 4,5 milioni di franchi (pena massima: 5 milioni) è stata così inflitta alla società BSI SA, ossia quell’entità giuridica tenuta in vita dalla nuova proprietà – EFG International – per liquidare le controversie penali e amministrative. Il decreto d’accusa non è ancora entrato in vigore poiché due filiali di 1MDB hanno fatto opposizione. La palla è ora nelle mani del Tribunale penale federale. 

Nell’attesa della decisione dei giudici di Bellinzona si possono già fare alcune considerazioni. La principale è quella che riguarda le responsabilità. Se BSI è affondata nei turbolenti mari malesi lo si deve ad una ragione precisa: la sete smisurata di denaro della sua nave ammiraglia, basata a Lugano. Negli anni duemila, confrontata con la crescente perdita della storica clientela italiana, i capitani bancari ticinesi hanno cercato nuovi sbocchi commerciali. I cosiddetti mercati emergenti – la Russia e i paesi dell’ex blocco sovietico, il Sudamerica e il Sudest asiatico – erano visti come il nuovo eldorado. BSI si stabilisce a Singapore dove vengono convogliati i milioni di dollari della rampante imprenditoria asiatica. Nella città-Stato la banca ticinese attira a suon di bonus esagerati i migliori colletti bianchi, e anche colui che diventa il CEO della filiale locale, Hans Peter Brunner. È ai suoi ordini che opera Yew Chee Yak, un banchiere esperto che quando arriva dalla banca rivale Coutts (la stessa dove aveva lavorato Brunner) si porta appresso i suoi succulenti clienti. Su tutti il gigantesco fondo sovrano della Malesia, 1MDB, e l’uomo d’affari Jho Low, golden boy dell’imprenditoria d’assalto malese, molto vicino all’allora premier Najib Razak, poi finito in carcere. Da quel momento, in BSI cominciano a piovere letteralmente miliardi di dollari. Tra Singapore e Lugano vengono aperti decine di conti legati a 1MBD, che diventa così il principale cliente dell’istituto. 

In quegli anni, tra il 2010 e il 2014, il denaro entra ed esce dalla banca come in un flipper impazzito, senza controlli. La pioggia dorata fa la gioia di tutti: i ricavi generati da 1MDB hanno un peso sempre più considerevole sui risultati operativi non solo di BSI Singapore, ma dell’intero gruppo. Simbolo di quell’euforia è la famosa lettera inviata per Natale, nel 2011, dall’allora CEO di BSI, Alfredo Gysi, al banchiere Yew Chee Yak: «Hanspeter mi ha detto del fantastico successo che hai raggiunto nelle scorse settimane (…). Grazie per il tuo immenso contributo non solo per la crescita del nostro nuovo business in Asia ma per tutto il gruppo BSI». 

Negli anni successivi Yak sarà ricoperto di bonus e i profitti generati dalle relazioni con 1MDB si riversano sulla banca e i suoi vertici. Tutti contenti, ma anche accecati. Nessuno capisce che dietro a quei flussi di denaro vi è una delle più grandi rapine della storia, orchestrata dal cliente BSI Jho Low. I rischi enormi, intrinsechi, legati a quei conti e a quelle transazioni abnormi sono stati bellamente ignorati. A Singapore il motto sembra essere: prima gli affari, poi il rispetto delle regole e delle più elementari norme antiriciclaggio. Ma anche a Lugano, a livello di gruppo, la banca non dispone certo di un sistema forte e strutturato per reagire in modo appropriato agli evidenti rischi di riciclaggio. Al riguardo, la FINMA ha poi ritenuto colpevole l’allora responsabile dell’ufficio legale.

Sul fronte penale, oltre all’entità giuridica BSI SA, a pagare sono stati di recente anche i due banchieri singaporiani che hanno commesso in prima linea il riciclaggio che la banca non ha saputo impedire: Yew Chee Yak e una sua collega. In quanto consulente di riferimento di conti bancari aperti a Lugano, Yak – nel frattempo dileguatosi non si sa dove in Cina – ha permesso di riciclare qualcosa come 2,4 miliardi di dollari. Denaro criminale poiché sottratto dalle casse di 1MDB per poi finire, passando dal Ticino, nelle tasche di Jho Low.

A questo punto occorre fare un paio di considerazioni supplementari. La prima riguarda la multa nei confronti della banca. La legge prevede che la pena massima per un’azienda condannata per non avere impedito il riciclaggio o la corruzione sia di 5 milioni di franchi. Una cifra giudicata “ridicola” dallo stesso procuratore generale della Confederazione, Stefan Blättler, ma che di recente il Consiglio nazionale ha deciso di non alzare. Di norma, la Procura federale può integrare la sanzione con una confisca o chiedendo il risarcimento dell’utile conseguito illecitamente. Lo ha fatto poco tempo fa con la condanna nei confronti del commerciante di petrolio ginevrino Gunvor e lo ha fatto altre volte in passato. Non si capisce quindi come mai, in questo caso, l’MPC non abbia potuto ordinare un risarcimento sulla base degli utili conseguiti da BSI grazie ai comportamenti illeciti relativi alla gestione dei conti di 1MDB e di Jho Low. 

L’ultimo aspetto riguarda il ruolo dei vertici. Dopo la condanna di Yak e della collega (uno disperso in Cina, l’altra a Singapore) e di BSI SA (che tanto non è più niente) da un punto di vista penale la vicenda sembra essere terminata. L’enorme quantità di denaro riciclata sui conti aperti a Lugano è stata sicuramente discussa ai piani più alti della banca. Nessuno è intervenuto, di fatto creando un pericolo letale per BSI,  mettendo in pericolo non solo la reputazione dell’istituto bensì l’integrità della stessa piazza finanziaria svizzera. Alla luce di quanto avvenuto è quindi legittimo chiedersi come mai la Procura federale non abbia voluto saperne di più sull’operato di quei capitani che hanno condotto la banca verso una missione suicida nei mari della malafinanza.

Nell’immagine: il CEO di BSI Alfredo Gysi nel 2010

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